venerdì 18 gennaio 2019

Steve Gunn - The Unseen in Between (Matador)


di Chris Airoldi

Cantautore e chitarrista dalla Pennsylvania con alle spalle una lunga militanza nei Violators di Kurt Vile, Steve Gunn arriva al quarto full-lenght da solista, a tre anni dall'ottimo 'Eyes on the Lines', debutto su Matador la cui promozione a pochi giorni dall'uscita fu funestata dalla notizia della morte del padre di Steve. Questo 'The Unseen in Between' muove i propri passi proprio da quell'evento, ma senza volerne essere cronaca o tragico compendio, tanto da suonare come un tenero tributo, soprattutto nella dolce malinconia di alcuni testi e nell'approccio spesso tenue e per nulla negativo.

Gunn è un autore molto ispirato e per questo disco sceglie di farsi produrre dall'amico James Elkington, cantautore e chitarrista altrettanto ispirato, del quale abbiamo già parlato in più di un'occasione (consigliato l'ascolto dell'ottimo 'Wintres Woma' del 2017). Elkington pennella i suoni attorno alla chitarra, e non poteva essere altrimenti, mettendo in gran luce le suggestioni europee e meticce insite nella musica di Gunn, dando al disco una connotazione lontana dall'Americana e dallo svagato lo-fi dei lavori con Vile. Merito di Elkington ma anche di Tony Garnier, l'altro ospite illustre del disco, sodale di Bob Dylan ma soprattutto bassista straordinario che arricchisce con il proprio contrabbasso il parco suoni dell'album.

Album che si apre con New Moon, ballad tremolante ben sostenuta da una batteria sincopata e dal contrabbasso, con un inciso che porta con sè i sapori dell'oriente, una armonica che modula in sottofondo e la bella voce di Gunn che pare sempre messa lì un po' in bilico, a reggere la parte principale fino al bel solo finale di chitarra. Vagabond è più sostenuta, si basa su un bell'arpeggio che in qualche modo ci riporta alle atmosfere down under dei Midnight Oil di Golden Age. Il pezzo è decisamente orecchiabile e gradevole; belle le chitarre, così come l'uso delle voci (con l'ospite Meg Baird) e l'arrangiamento, pieno ma non invadente. Chance non è da meno, siamo sempre immersi in scenari chitarristici, con la voce che resta indietro quasi a volersi inserire nel pieno strumentale, dopo due ascolti è un brano che convince.

Il brano cardine del disco è però Stonehurst Cowboy, splendida elegia per acustica e contrabbasso, che ci riporta al folk inglese degli anni '70, con reminescenze di Bert Jansch e dell'amato John Fahey. Garnier affila gli artigli e il brano si gusta dalla prima all'ultima nota. Luciano prosegue ad alto livello, con un bel lavoro di arrangiamento, tra reverberi e contrappunti e le voci a costruire trame notevoli; va ascoltata più volte, per godere appieno del lavoro delle chitarre, soprattutto nel catartico finale. Il suono meticcio torna prepotentemente nella successiva New Familiar, lunga galoppata dal retrogusto psichedelico, forse meno incisiva di ciò che l'ha preceduta, soprattutto per l'arrangiamento un po' caotico. Meglio la seguente Lightning Fields, con le tante chitarre ad inseguirsi tra arpeggi e soli.

L'album si chiude con le atmosfere desertiche folkie e il bel picking di Morning is Mended, brano che pare arrivare da un'altra epoca, seppur fresco e godibile, tra voci doppiate, bordoni di contrabbasso e un sentore di Nick Drake tutt'altro che spiacevole, e con l'up-tempo di Paranoid, ballad pianistica che per suoni e soluzioni stilistiche starebbe bene in un album di Father John Misty. Gunn ci regala un buon lavoro, con poche ombre e molte luci, nel quale come detto non troviamo gli stilemi Americana consueti, ma molto gusto e grande capacità di mettere in risalto gli elementi cardine del proprio stile; un lavoro che, come spesso diciamo, merita più di un ascolto. (7,5/10)