Widdershins è un affascinante vocabolo, utilizzato dagli anglofoni per indicare un andamento contrario rispetto al tempo o ad una direzione; in italiano potremmo tradurlo in maniera semplicistica con "antiorario" o "contromano". E' il titolo scelto per l'ultima fatica del cantautore da Stockton, ora stabilmente Nashvilliano, il quale, da un paio di anni a questa parte, pare aver recuperato l'urgenza compositiva e la grinta che caratterizzarono l'epopea di band come Shiva Burlesque e Grant Lee Buffalo, indirizzandole in un vivido contesto Americana, territorio nel quale Phillips si muove con una naturalezza che pochi altri artisti possono vantare.
Album dopo album, il Nostro si è costruito un suono riconoscibilissimo, mettendo insieme una calda e raffinata vocalità, strumentazioni parche ma sapientemente arricchite di sfumature, e una penna sempre ispirata, anche nei brani minori o meno incisivi. Il percorso artistico l'ha portato ad esplorare ogni tipo di sonorità: dall'elettronica al proto-punk, dal folk intimista al rock più ridondante, e i geni di ognuna di queste esperienze sono ancora presenti nel dna della sua musica. Questo Widdershins ne è la prova tangibile: dodici solidi brani in pieno Phillips-style, con la tensione sempre alta e una rinfrancante freschezza compositiva.
Se l'ottimo lavoro precedente, The Narrows (2016), indugiava in ambiti più folkie, dando l'impressione di trovarsi di fronte ad un autore con una maturità ormai lontana dalla grinta rock dei vecchi tempi, Widdershins rimette le cose a posto, mostrandoci un Grant-Lee ancora pienamente a proprio agio sulle corde elettriche di una Gibson o sul beat massiccio della spettacolare sezione ritmica formata da Jerry Roe e Lex Price, elementi cardine di questo lavoro, certamente uno dei più riusciti nella sua intera discografia.
L'iniziale Walk in Circles è una sorta di manifesto programmatico: il jingle jangle delle chitarre, ben sostenuto da una pastosa batteria, getta le fondamenta per una tracklist ricca e variegata, nella quale trovano posto il dolce-amaro up-tempo di una splendida Unruly Mobs, solidissima nell'arrangiamento, le atmosfere vintage di una sincopata ballad come Something's Gotta Give, la scoria punk dal sapore anglosassone di Scared Stiff, e le reminiscenze Buffaloane della rocciosa The Wilderness e della anthemica Liberation; brani che scorrono fluidi, senza incertezze, grazie anche all'ottimo lavoro in studio, opera dello stesso Phillips in compagnia di due vecchie volpi come Tucker Martine (R.E.M., My Morning Jacket, Bill Frisell) e Mike Stankiewicz (Willie Nelson, Jason Isbell).
Grant-Lee Phillips è una sicurezza; spesso ingiustamente relegato ad un ruolo da comprimario in una scena musicale che privilegia personaggi con attitudine più ruffiana o presenzialista, continua imperterrito a percorrere la propria strada, contromano o in senso antiorario che sia, rivitalizzando disco dopo disco un linguaggio ancora vegeto, nonostante i titoli ad effetto sempre uguali delle riviste patinate da sala d'aspetto. Siamo solo a Febbraio, tanta acqua deve passare sotto i ponti, ma un posticino tra i migliori dell'anno questo disco se lo merita, tenetelo a mente. (8,5/10)