lunedì 5 giugno 2017

Gov't Mule - Revolution Come...Revolution Go (Fantasy Records)


La storia del rock è costellata di arrivi e partenze, di vecchi eroi che ci lasciano, nuovi astri nascenti e ferree leggi sulla necessità di non fermare mai lo spettacolo. Ecco dunque, a poco meno di due settimane dalla morte di quel Gregg Allman che coi suoi Fratelli fornì la costola dalla quale furono generati, i Gov't Mule di Warren Haynes (e del prematuramente scomparso Allen Woody) ritornare nei negozi con questo album, il decimo in studio, la cui gestazione ha in qualche modo vissuto in parallelo le recenti vicende della "più grande democrazia occidentale". 

Le registrazioni di 'Revolution Come...Revolution Go' sono infatti partite in coincidenza con l'Election Day 2016, quell'8 Novembre che ha in effetti dato il via ad una sorta di anti-rivoluzione della quale tutto il globo, con più o meno apprensione, attende giorno per giorno gli sviluppi. Benché le posizioni politiche del combo siano più vicine alle istanze dei democratici, il pubblico dei Muli è chiaramente bipartisan, per cui la band ha deciso di non alimentare le divisioni, bensì fare leva  sulla capacità della musica di unire le persone. Come ha detto Haynes:"Il messaggio più importante che spero arrivi dal nostro album è che sta alle persone lavorare insieme per risolvere questa situazione. Non possiamo pensare lo faccia il governo. L'unico modo per farlo è lavorare tutti insieme."

Registrato tra Austin e New York, con al mixer due vecchie volpi come Gordie Johnson e Don Was, l'album propone il consueto mix esplosivo di riff granitici, ballate dal sapore sudista e cavalcate elettriche, con la potenza dell'hard rock dei '70 nella testa e le lunghe divagazioni da jam band nel cuore. Nonostante la formula sia ormai fin troppo prevedibile, possiamo dire con certezza che questo disco si va a porre senza troppa fatica tra le cose migliori proposte dai Muli, grazie ad una fortunata messe di brani e alle sonorità massicce ma non eccessivamente spinte come successo in passato. Certo siamo ad anni luce dall'easy listening ma per fortuna equamente distanti dall'hard rock di grana fin troppo grossa che a volte traboccava dai solchi degli album precedenti. 

La formazione è quella super-rodata: la vecchia guardia formata da Haynes e dal batterista Matt Abts, più il bassista Jorgen Carlsson e il poli-strumentista Danny Louis, da dieci anni affidabilissimi membri effettivi della band; ospite di lusso in un brano la Stratocaster del texano Jimmie Vaughan. Il disco si apre con il singolo che lo ha preceduto di qualche settimana, quella Stone cold rage dal passo zeppeliniano con un bell'organo e la chitarra "strappata" con vigore funk; brano che per i Muli è di routine ma per il quale decine di band farebbero carte false. Segue Drawn that way, composizione aperta da un'introduzione tendente al prog che si trasforma presto in un roccioso hard-shuffle sul quale Haynes può dar sfogo alle proprie corde vocali. Al termine del solo di chitarra centrale che a più riprese fa pensare al buon vecchio Billy Gibbons, il brano se ne scappa via su un boogie in stile ZZTop, e il cerchio in qualche modo si chiude.

Profumo di soul tra le note del terzo brano, l'up-tempo Pressure under fire. Questo, per chi scrive, è il mestiere che i GM sanno fare meglio. Gran pezzo con tutti i tasselli al posto giusto: bel riff, voce in palla, organo presentissimo, parte centrale in crescendo e piccolo solo finale, non si potrebbe chiedere di più. The man I want to be si intuisce da subito essere 100% Allman; è una ballata blues ancora pervasa di soul, che non avrebbe sfigurato nel repertorio anni '90 della band da Jacksonville. E se ancora il concetto non fosse chiaro ecco Traveling tune, con le chitarre doppiate, le percussioni e 5 minuti e mezzo di suoni vagabondi, il testimone pare essere davvero in buone mani. 

Thorns of life è più involuta e cupa, si basa su un bell'arpeggio sostenuto dalla batteria sincopata di Abts ma rimane un gradino sotto le precedenti, pur avendo una bella apertura centrale che fa pensare ai Black Crowes. Molto meglio Dream & songs, ennesima ballata con un bel Wurlitzer a guidare le danze, portando la voce espressiva e potente di Haynes a raggiungere le vette dell'album. Sarah, surrender è il pezzo di troppo che a volte fa capolino nelle tracklist degli album dei Muli: brano in bilico tra le due visioni contrapposte del funky, quella nera più vicina al gospel e al blues e quella bianca, infiorettata di fusion e un po' noiosetta, apre la strada alla title-track, composizione funk più greve ma sempre un po' troppo sopra le righe, nonostante il nervoso Hammond e la parte blues centrale che sfocia in jam, otto minuti solo per i fans più accaniti. 

Si ritorna in focus con l'hard-boiled blues Burning point che vede il già citato Vaughan fare fuoco e fiamme incrociando la sua Fender con la Gibson di Haynes; gran lavoro di Danny Louis tra organo e piano elettrico e la ritmica quadrata e solida di Abts e Carlsson a dare sostanza. Easy times pare invece un tributo al fratello di Jimmie, lo sfortunato Stevie Ray Vaughan: splendida ballata texana, con reminiscenze hendrixiane, scritta bene e cantata meglio, ennesimo grande brano. Chiusura con i sette minuti e mezzo di Dark was the night, cold was the ground, summa di molte influenze, tra blues e roots, con sottili allusioni ai Pink Floyd. Brano epico e cinematografico, spettacolare conclusione di un disco che ci riporta i migliori Gov't Mule. Con un paio di brani in meno un mezzo voto in più ci sarebbe anche stato. (8/10)