di Chris Airoldi
Tra i dischi più attesi di questa prima parte del 2018, il terzo lavoro solista per il celebrato cantautore/produttore dalla Carolina del Nord arriva a quasi cinque anni dall'eccellente Fanfare (Bella Union, 2013), album che vedeva il Nostro alle prese con neo-folk e psichedelia, in compagnia di nomi del calibro di Crosby & Nash, Jackson Browne, Roy Harper, Benmont Tench e Mike Campbell. Per questa nuova fatica discografica Wilson si avvale della collaborazione di artisti stabilmente nel proprio entourage: Lucius, Father John Misty e Lana Del Rey, oltre al pioniere della New Age Edward Gordon aka Laaraji, portando a compimento un lavoro artisticamente più complesso del precedente, per il quale ha deciso di spingere la produzione verso territori sperimentali, in un articolato mix fatto di atmosfere di modernariato musicale e colte citazioni.
La caotica e un filo disturbante copertina, che pare realizzata in chroma-key utilizzando un vecchio Commodore 64, ben rappresenta l'addentrarsi ai confini del kitsch-musicale di questo disco, quasi a voler seguire le orme del precedente in un'ottica non tanto musicale quanto temporale, allineando stilemi anni '70 e sonorità 8-bittiane senza remora alcuna. Wilson è autore molto in gamba e produttore straordinario, per cui anche quando mette assieme coretti in stile Abba, chitarre dal suono ruffiano e cantato duplicato, ne esce in maniera convincente. Il lavoro svolto in studio e sul palco per in compagnia di Roger Waters è più che un'influenza palese in questo lavoro, del resto le atmosfere pinkfloydiane non sono mai mancate nella sua musica.
E il disco parte proprio così, teletrasportandoci agli Abbey Road Studios del 1975, per il primo minuto di una Trafalgar Square che dall'iniziale 4/4 lento si tramuta in un blues-rock con le compressioni spinte della batteria e una chitarra crunchy a gestire le danze, mentre la voce effettata se ne sta un filo in disparte, in una sorta di nebbia creata da effetti sonori e intermezzi psichedelici. Me resta nello stesso mood, è una ballad pianistica con voce lennoniana, stop ben studiati e ancora lo spirito di Waters che aleggia vagamente inquietante. Finale in crescendo con un tessuto di archi, voci e synth vintage a far da contorno ad un solo di sax urlante e per nulla manieristico, che sfuma molto lentamente.
Over the Midnight, già anticipato come singolo accompagnato da un bel video in animazione digitale, è un lungo brano con un beat sostenuto, tastiere eteree e atmosfere post-new wave, con la voce satura di riverberi come non ne sentivamo dagli anni '80; sembra un brano uscito da un disco pop dei Fleetwood Mac o di Steve Winwood, con quel rullante dal suono schiacciato con tanto di tamburello e i chorus e i wah delle chitarre. Ancora ritmi sostenuti ma suoni più naturali, per la successiva There's a Light, sempre in bilico tra '70 e '80, con coretti femminili, tastiere che seguono la melodia del cantato e un andamento molto catchy. Meglio la successiva Sunset Blvd, che si apre come una ballata pulita per pianoforte e voce quasi sussurrata, con la batteria minimale, un bel lavoro di basso ed archi ed una splendida coda finale, forse il pezzo migliore del lotto; quando Wilson mette sul piatto brani di questo spessore dimostra tutto il proprio talento.
La title-track si apre con una lunga intro per un bel solo effettato di slide, che si ritira repentinamente per lasciare spazio alla voce, in un'alternanza di pulito-distorto molto interessante, sostenuto da un piano elettrico ostinato e da un bel miscuglio di intrugli elettronici, con un inaspettato intermezzo terzinato con tanto di lap steel da sghembo western, per poi ripartire con le distorsioni; brano strampalato ma decisamente avvincente. 49 Hairflips rimette in primo piano il pianoforte, per un lento gospel malinconico dal ritornello potente, altro grande brano. Miriam Montague ha nei geni Beatles, Elvis Costello e Robyn Hitchcock, un bell'arrangiamento e fila via decisa, rallentando al minimo per un intermezzo lisergico nel quale torna il sax per poi ripartire in quarta, mantenendo il disco su binari di eccellenza.
Loving You torna eighties, con la voce assottigliata e un'atmosfera un po' pesante, un brano che poco aggiunge a quanto sentito finora e si dilunga anche troppo, quattro degli otto minuti potevano già essere abbastanza, visto anche il testo piuttosto banale; la presenza di Laaraji pare poco più che un cammeo improvvisato. Molto meglio Living With Myself, sebbene un po' ridondante per l'abbondanza di synth: voce ancora sussurrata, testo introspettivo senza troppa retorica, bella apertura corale; brano quasi Springsteeniano nell'incedere che regge bene anche alla distanza. I suoni tornano carichi con la seguente Hard to Get Over, con una ritmica scomposta sorretta da archi marziali, a costruire una struttura solida, al cui tempo molto scandito bene si adatta il cantato tra grinta e falsetto di Wilson. Altro brano ben scritto e prodotto, con l'ennesimo intermezzo straniante, che riporta le azioni del Nostro ai livelli migliori.
Hi Ho The Righteous è ancora un divertissement western, invero poco riuscito, al quale il cambio di ritmo non dà la forza necessaria a evitare gli skip del lettore, sei minuti che si potevano risparmiare, solo il caos finale della batteria vale un ascolto. Di tutt'altro tenore la conclusiva Mulholland Queen, aperta da una splendida intro al pianoforte: la voce si insinua con grande forza espressiva tra i contrappunti e ci regala un ottimo finale che ci permette di scordare in fretta il brano precedente. Altro grande brano in un disco fatto di alti e bassi. Wilson non smette di stupire nelle vesti di produttore, anche in questo caso siamo di fronte ad un lavoro ben strutturato e pieno di particolari da apprezzare ascolto dopo ascolto. Purtroppo in alcune circostanze le composizioni risultano deboli, e la tendenza a dilatare eccessivamente i brani non aiuta a mantenere la tensione costante in tutto il disco. (7/10)