martedì 25 aprile 2017

Mark Lanegan Band - Gargoyle (Heavenly Recordings)


Disco dopo disco, attorno al 52enne ex-vocalist degli Screaming Trees si è costituita una squadra di fidati collaboratori che ha permesso al nostro di raggiungere un equilibrio compositivo stabile e ben delineato, ormai definitivamente avulso dal cantautorato folk-oriented degli inizi. L'ultimo entrato in ordine di tempo nel team, l'ex-chitarrista dei defunti Exit Calm Rob Marshall, si è integrato senza troppi patemi d'animo, contribuendo ampiamente alla stesura di sei dei dieci brani che formano la tracklist di questo decimo lavoro in studio firmato dal cantautore da Ellensburg. 

Gli altri contributi al disco arrivano da nomi ormai familiari ai seguaci di Lanegan: dal musicista e fidato produttore Alain Johannes, agli storici compagni di scorribande discografiche Josh Homme (Queens of the Stone Age) e Greg Dulli (Afghan Whigs), per finire con il pupillo Duke Garwood, cantautore britannico che ha in qualche modo preso il posto di Lanegan nel cuore dei fans della prima ora, quelli più legati ad un suono acustico, notturno e stradaiolo, strettamente imparentato col blues.

E' palese quanto la direzione intrapresa da Lanegan con l'album Blues Funeral (4AD, 2012) sia ormai una strada maestra dalla quale il nostro intende deviare solamente a seguito di sporadiche collaborazioni discografiche. Il rock oscuro, venato di fascinazioni elettriche, inserito in un contesto cupo e post-apocalittico è il substrato dal quale questo Gargoyle prende vita, correggendo ancora una volta il tiro verso stilemi new wave e sonorità che strizzano l'occhio al Kraut-rock. La genesi dell'album, consumatasi tra il Kent dei Mount Sion Studios di Marshall e la California degli 11AD di Johannes, è chiaramente influenzata da una dualità geografica.

Come dichiarato da Lanegan, Blue blue sea è in qualche modo il brano che ha definito le coordinate del lavoro (oltre ad aver fornito il titolo); basato su una sequenza di organo e synth che si ripete ossessivamente, il pezzo ha qualche analogia compositiva con la precedente produzione del nostro ma si proietta chiaramente verso le influenze descritte poco sopra, delineando, in coppia con il successivo Beehive, scelto come singolo, la linea del lavoro. Tra cupe ossessioni e tirate elettriche, Lanegan non si concede divagazioni o alleggerimenti del tema narrativo ma punta ad una sostanza solenne e imponente, testimoniata da brani estatici come Sister o First day of Winter, ma anche dalla inquieta mobilità di episodi come Drunk on destruction o Death's head tattoo.

La solidità del progetto è in definitiva sia il pregio che il difetto di questo lavoro: Lanegan mostra di avere ancora una penna molto ispirata e di poter contare su una formula ormai ampiamente rodata, corroborata dalle prestazioni di alto livello dei compagni di avventura. Purtroppo, in alcuni momenti l'insieme pare tirare un poco la corda, tanto da farci pensare che la scelta di un produttore meno inserito nel consolidato cerchio magico di Lanegan potrebbe portare preziosa nuova linfa, regalandoci il capolavoro che forse ancora manca nella discografia del nostro. (7/10)