mercoledì 10 dicembre 2008

Ray LaMontagne - "Gossip In The Grain" (14th Floor/Warner)


C’era molta attesa per quest’opera terza di Ray LaMontagne, cantautore originario del New Hampshire, titolare di un folgorante esordio, quel Trouble (2006), per il quale la critica scomodò una serie di nomi altisonanti (Morrison, Dylan, Buckley, The Band), e del successivo, strepitoso Till The Sun Turns Black (2007), disco umorale e ombroso, col quale il Nostro dava prova di raggiunta maturità compositiva ed artistica. 

Molta attesa, dicevamo, alimentata anche da ripensamenti in fase di post-produzione, che hanno fatto spostare diverse volte la data di pubblicazione. 
Dotato di una voce che non lascia indifferenti e di una sensibilità musicale fuori dal comune, in grado di reinterpretare la tradizione cantautorale con grande rispetto ed una buona dose di originalità, adorato dalla critica specializzata e forte delle buone vendite degli album precedenti, LaMontagne, anche questa volta in compagnia del fido Ethan Jones, produttore/polistrumentista da sempre al suo fianco, rende omaggio al Vecchio Continente, scegliendo due tra gli studi più prestigiosi: gli ipertecnologici Real World Studios di Bath (quelli di Peter Gabriel, per intenderci) e gli storici Abbey Road Studios di Londra. 

Il risultato è un disco convincente, che parte dalle sonorità intimiste del predecessore, aggiungendo colori e sfumature inedite. Un lavoro che ripaga l’attesa con 10 brani in perfetto equilibrio, senza alcuna concessione alle mode del momento. Sincero, appassionato, che non nasconde le proprie influenze ma le elabora con gusto tutto personale, LaMontagne è cantautore di razza, non ci sono dubbi.
L’amore di Ray per la musica nera è già preponderante nel brano di apertura, scelto anche come singolo: You Are The Best Thing sembra uscire da un vecchio vinile Motown dei ’60, pezzo soulful con forti echi gospel, fiati in crescendo, contrappunti di chitarra, la voce grande protagonista ed un ritornello che non si stacca più dalla testa. Ottima apertura.

La successiva Let It Be Me entra di diritto nel novero dei grandi brani scritti dal nostro: ballata guidata dalle chitarre che disegnano con semplici accordi una melodia agrodolce, perfetto supporto all’espressività delle struggenti armonie, modellate dalla voce su un testo di grande impatto emotivo. Archi mai invadenti e pianoforte liquido completano il tutto in maniera ineccepibile. 
Sarah nasce su un tappeto di percussioni minimale, con ukulele ed archi a tèssere sonorità avvolgenti. Pezzo che ricorda il miglior Morrison, tiene alto il livello dell’album pur non essendo un capolavoro.

Capolavoro che arriva con la successiva I Will Care For You, aperta da un favoloso intro strumentale guidato dalla fluida batteria, suonata in maniera splendida da Ethan Jones, il quale ancora una volta dimostra un gusto ed una padronanza delle dinamiche veramente notevoli. Pedal steel sognanti, voci sussurrate, basso appena accennato e poco altro, ma il brano ha una forza espressiva devastante. Più lo si ascolta più cresce, prerogativa questa che vale anche per tutto l’album.
Winter Birds, solo voce e chitarra, è una lezione di stile: poche cose ma tutte al posto giusto. Poetica e sognante, velata di quella malinconia che LaMontagne sa esprimere come pochi altri. 

Episodio curioso è la seguente Meg White; dedicata alla batterista dei White Stripes, per la quale pare che il buon Ray manifesti un certo interesse. Dal testo non si evince se questo interesse sia ironico o se si tratti di una dichiarazione in piena regola. Certo è che alcuni versi fanno un po’ sorridere. Musicalmente il brano si regge sulla ritmica ostinata molto british della strofa, che porta ad un ritornello soft, a tratti onirico. Ironia a parte, il brano è molto orecchiabile. Particolare l’intro, chiaro omaggio a Morricone.

Dopo qualche digressione verso sonorità più europee, Ray va in cerca delle radici americane ed il risultato è il country meticcio di Hey Me, Hey Mama, che parte in up-tempo su un tappeto di banjo, chitarra e batteria, sfocia in un ritornello molto catchy, per concludersi con una coda strumentale jazzata, da orchestrina di New Orleans, con tromba e clarinetto a condurre le danze. Brano che non ti aspetti, davvero piacevole.

L’attacco di Henry Nearly Killed Me sembra provenire da una delle Anthologies dei Beatles. Parte come fosse una jam in studio, sviluppandosi su una ritmica ipnotica, con un muro di chitarre ed un’armonica ispirata. Omaggio che LaMontagne tributa ad un gruppo la cui influenza si è manifestata varie volte nel suo songbook. Godibilissima. 
A Falling Through, ballata dall’incedere youngiano, è l’ennesimo capolavoro dell’album. Poetica e densa di pathos, raggiunge l’apice nel commovente ritornello che tocca l’anima con parole semplici. 
La conclusiva Gossip In The Grain, con un arrangiamento soffuso ma ricco, in un crescendo lento e graduale, è la degna conclusione per un disco che conferma quanto di buono è stato finora detto su Ray LaMontagne, uomo sensibile e schivo, che album dopo album sta conquistandosi un posto tra i grandi songwriters del nostro tempo.