sabato 30 agosto 2008

Fleet Foxes – "Fleet Foxes" (Sub Pop/Bella Union)


Splendida sorpresa questi cinque ragazzi di Seattle, i quali, poco più che ventenni, hanno già indotto la critica d’oltreoceano a scomodare una plétora di mostri sacri allo scopo di trovare una definizione per il loro sound: Beach Boys, Crosby Stills & Nash, Neil Young, Simon & Garfunkel, Bob Dylan, The Band e Fairport Convention sono solo alcuni dei nomi citati nelle recensioni delle riviste specializzate. Le applauditissime partecipazioni a festival prestigiosi (South By Southwest di Austin e Pitchfork di Chicago tra gli altri) hanno poi contribuito a far conoscere le peculiarità di questa band ad un pubblico più vasto, alimentando una sorta di passa-parola fra addetti ai lavori ed appassionati.     
Tutto ciò ha accresciuto esponenzialmente la curiosità verso questo lavoro, prodotto dall’esperto concittadino Phil Ek (il quale può vantare collaborazioni in studio con Mudhoney, Band Of Horses, Built To Spill, Shins e molti altri), già produttore dell’EP di esordio Sun Giant, pubblicato dalla band qualche mese fa. E le attese sono state indubbiamente premiate, il disco che abbiamo tra le mani è di certo uno dei più interessanti usciti in questo ottimo, musicalmente parlando, 2008.
La Sub Pop, dopo un periodo di appannamento post-epopea grunge, pare rinata dalle proprie ceneri, vantando ora un catalogo di tutto rispetto, che allinea band e solisti tesi al recupero di sonorità minimali e folkie, a rielaborare e rinnovare la tradizione, dandone una lettura rispettosa ma al tempo stesso moderna ed originale. 

Una sorta di contrappasso acustico per la veterana etichetta indipendente, dopo anni di sventagliate elettriche e distorsioni: Iron & Wine, Band Of Horses, Grand Archives, Bon Iver e questi promettenti Fleet Foxes sono ottime credenziali per il ritorno ai fasti di un tempo.
Ciò che colpisce di più degli 11 brani contenuti in questo album sono le armonie vocali che si intrecciano a formare architetture a volte delicate ed evocative, in altri momenti epiche e pastorali. Le voci diventano così lo strumento principale dell’album, dal quale nascono gli spunti per divagazioni psichedeliche, oniriche ballate e piccoli affreschi bucolici. 

Questa cura negli arrangiamenti delle parti cantate nasce dalla passione del gruppo per i vecchi dischi di gospel e per la band di Brian Wilson. La voce solista di Robin Pecknold raggiunge vette altissime, pregna di un lirismo maturo, ricordando, a tratti, quella dell’ottimo Jim James dei My Morning Jacket
Arrangiamenti ricchi, mai troppo caricati, si sviluppano su trame disegnate da un classico combo: chitarra (Skye Skjelset), basso (Christian Wargo), pianoforte (Casey Wescott) e batteria (Josh Tillman), ben supportati da mandolini, flauti, autoharp e percussioni, a creare abbellimenti e contrappunti caratterizzati da gusto, delicatezza ed eleganza.

Musicalmente gli echi West Coast, la psichedelia, il suono delle radici, gospel e folk sapientemente miscelati, creano il sound unico di questa band, così giovane ma già così promettente.
Sun It Rises parte come una sorta di spiritual finendo ad aprirsi in una ballad westcoastiana che riporta alla mente il capolavoro solista di David Crosby  If I could Only Remember My Name. L’influenza dei “ragazzi di spiaggia” si manifesta nella vocalità ariosa di Quiet Houses, He Doesn’t Know Why e White Winter Hymnal. Bellissime anche Your Protector e Tiger Mountain Peasant Song, ma tutti gli 11 brani del disco scorrono fluidi, nel loro splendido anacronismo, denso di carica emotiva e pathos. 

Melodie superbe, arrangiamenti favolosi, in perfetto equilibrio. Un inizio folgorante, per una band che dà l’impressione di poter crescere ancora molto. Teniamoli d’occhio.