sabato 21 giugno 2008

Sigur Ròs - "Með suð í eyrum við spilum endalaust" (EMI)


Molto attesa da fans e critica, arriva finalmente sugli scaffali dei negozi questa nuova fatica del quartetto islandese che, abbandonato definitivamente lo status di band di culto, riscuote unanimi consensi in giro per il Mondo. 


Tra una tournée e l’altra, negli ultimi due anni, la band si è rivelata anche assai prolifica, pubblicando dapprima il doppio ep Hvarf/Heim, con tre inediti e riedizioni live di vecchi brani, poi lo strepitoso DVD Heima che documentava il ritorno in terra natìa dopo il lungo tour mondiale del 2005/2006, infine questo Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust (Con un ronzio nelle orecchie suoniamo all’infinito, denominazione assai intrigante che nasce dall’unione dei titoli di due brani presenti nella raccolta), registrato tra New York, Londra, Cuba e l’Islanda, che continua sulla strada ben tracciata dai predecessori, mettendo sul piatto melodie ariose, sognanti fraseggi ed un rumorismo soffice e di maniera, dispensando qualche piacevole novità stilistica, certamente anche grazie all’apporto in fase produttiva di Flood, al secolo Mark Ellis, produttore di vaglia (Nine Inch Nails, Depeche Mode, U2, Nick Cave , Jesus and Mary Chain, Smashing Pumpkins, PJ Harvey e tanti altri) che integra le proprie idee nelle oblique sonorità della band senza snaturarle minimamente, rinvigorendo invece stilemi che avrebbero potuto portare a sgradevoli sensazioni di già sentito. 


E la prima traccia fa già sussultare: Gobbledigook attacca percussiva, con una chitarra acustica ficcante, quasi fosse flamenco, ad incastrarsi dentro una struttura ostinata di tamburelli e claps. Se dopo pochi secondi non ci fosse la voce (sempre lirica e bellissima nella sua imperfezione) di Jón "Jónsi" Þór Birgisson a tessere melodie sottili, parrebbe di trovarsi dinanzi ad un nuovo pezzo scritto da Sam Beam per i suoi Iron & Wine.

La successiva Inní mér syngur vitleysingur continua sul percorso aperto, con una batteria quadrata a far da base a piano e glockenspiel che ossessivamente ripetono una sequenza melodica che ti si stampa in testa. Il brano prosegue con un intermezzo più riflessivo ed evocativo, seguito da un crescendo (i Sigur Ròs sono maestri nello sviluppo di queste dinamiche) con contorno di archi e fiati che ci riporta alla furia dolce di questo splendido brano. 


A questo punto ci si aspetta qualcosa di più introspettivo e puntualmente nel lettore parte la traccia numero tre: Góðan daginn che ci riporta alle atmosfere di Heima, con una batteria accarezzata dalle spazzole, glockenspiel ed un coro di voci bianche a creare un’atmosfera sublime e sognante. Finale con archi in bella evidenza. Segue Vio spilum endalaust, brano destinato a diventare un classico delle esibizioni live del quartetto, basso e harmonium a dettare il tempo, la batteria pestata a dovere, i fiati e la voce a rincorrersi su epici territori da sempre familiari alla band.


Festival parte come una delicata preghiera cantata in Hopelandic, la lingua inventata da Jònsi, il quale dà il meglio di se immergendo le proprie corde vocali in liquide melodie intessute dagli archi ed interrotte dall’ingresso di una chitarra elettrica suonata con intenzione quasi punk, a riportare ritmo e pulsante inquietudine in questo che risulta essere uno dei punti più alti del disco.

Un pianoforte poggiato su una ritmica quasi marziale introduce la successiva Með suð í eyrum, la quale risulta un buon esercizio di stile, restando un po’ in ombra rispetto a ciò che l’ha preceduta.

Atmosfere soffuse con finale epico per la lunga e commovente Ára bátur, registrata nei mitici Abbey Road Studios, che, dopo una partenza minimale a base di piano, voce e contrappunti di archi, si apre ad un lirismo possente grazie al coro della London Oratory School ed ai fiati della London Sinfonietta, che concludono di prepotenza il brano, con risultati da pelle d’oca.


Illgresi suona come una ballata dal vago sapore medioevale, con una chitarra pizzicata e gli archi a colorare questo splendido acquerello, perfettamente rifinito dalla voce, che da solo vale il disco.

Nel suo volgere al termine il disco si ammorbidisce, accentuando sempre più la delicata vena melodica del combo islandese. Brividi per piano ed archi in Fljótavík; sorta di colonna sonora bucolica per grandi spazi la strumentale Straumnes. La conclusiva All Alright, quasi sussurrata su una flebile base di piano e fiati chiude drammaticamente il disco, lasciando sensazioni dense e quell’emozione difficilmente descrivibile, tra il malinconico ed il sereno che solo la musica dei Sigur Ròs sa rappresentare. 


Ancora una volta nessun compromesso, l’integrità di questa band non si discute. Possono non piacere, ma indubbiamente riescono a creare un “caos agrodolce” che smuove i sentimenti con la stessa potenza di musiche ben più ricche di watt e bicordi. Album splendido.