domenica 7 ottobre 2018

John Smith - Hummingbird (Commoner/Thirty Tigers)


di Chris Airoldi

Folksinger e dotato chitarrista, con John Renbourn e Bert Jansch nel cuore, il britannico John Smith giunge alla sesta fatica discografica, ancora una volta pubblicata da totale indipendente, estraendo dal proverbiale cilindro una manciata di brani di valore che fanno di questo 'Hummingbird' uno dei lavori più interessanti tra quelli pubblicati in questa ottima annata. L'anagrafe gli ha regalato uno dei nomi più comuni al Mondo ma la natura è stata più generosa, dotando Smith di una voce bella, carica e pastosa, molto riconoscibile, nonché di un notevole talento per la sei corde, strumento che il nostro padroneggia come pochi, stando ben distante da pesanti virtuosismi o inutili soliloqui. 

Smith non è propriamente un presenzialista, la sua anima è quella del troubador, del musicista che si guadagna la pagnotta col sudore sul campo e in questo album si respira l'atmosfera sospesa tra le brume del Somerset e la polvere delle strade americane, con tutta la forza che una voce e una chitarra, circondate da parchi arrangiamenti, sono in grado di esprimere. Prodotto, seguendo la filosofia del less is more, da Sam Lakeman come il precedente 'Headlong' (Commoner, 2017), 'Hummingbird' è arricchito dalla presenza discreta ma determinante di ospiti di lusso del calibro di Cara Dillon, John McCusker e Ben Nicholls.

La title-track apre il disco con un bel finger-picking inserito in un tessuto di chitarre a trame fitte, sul quale Smith appoggia la voce sabbiosa ed espressiva, contrappuntando tra una strofa e l'altra con bei fraseggi solisti. Gran brano che ci fa entrare immediatamente nel clima del lavoro ed apre la strada a Lowlands of Holland, composizione figlia del folk tradizionale, con le chitarre ad esibire un gran campionario di arpeggi, circondati da ampi svolazzi di violino e whistle, con uno stop centrale che lascia spazio alla spettacolare entrata in scena di un coro che chiude il brano in maniera perfetta.

Boudica è maestosa nell'incedere iniziale, con archi, chitarra e voci a creare gran pathos. La strofa poi si asciuga, lasciando sul piatto solo voce e chitarra, fino a che il tutto non si ricarica nuovamente, diventando imponente e regalandoci un capolavoro, brano splendido. Hares on the Mountain è più canonica, composizione con un bel testo romantico, deliziosamente distesa su un caldo tappeto sonoro, Smith canta con giusta intenzione e gli archi si insinuano nelle pieghe emotive con gusto; splendido il piccolo solo centrale, pochi secondi per poche note ma vale tutto il brano.

Lord Franklin e Master Kilby sono una sorta di oasi minimale nel disco; la prima è moderna, fatta di sentori lievi, giocata sulle dinamiche, forse la più prevedibile del lotto masempre un gran sentire. La seconda è breve e soffusa, crea l'atmosfera giusta per portarci verso la conclusione del disco, in grande crescendo con The Time Has Come, pezzo arrangiato con maestria, nel quale l'amore per Jansch fa più che capolino, Willy Moore, con le chitarre nervose ad inseguire la voce sui territori del folk più tradizionale, e la bellissima rivisitazione di Axe Mountain dall'esordio 'Map or Direction' (2009),  caratterizzata da uno splendido fraseggio iniziale di chitarra.

Chiude Unquiet Grave, brano con atmosfere più americana, nel quale Smith butta l'anima, per un'interpretazione vocale davvero convincente. Il brano è arricchito dalle belle voci e dalle articolate evoluzioni di piano, steel e contrabbasso: gran chiusura per un disco che senza troppa fatica si guadagna un posto tra i migliori dell'anno. (8,5/10)