di Chris Airoldi
A poco più di un anno dalla pubblicazione dell'eccellente 'Pure Comedy', il prolifico Josh Tillman aka Father John Misty torna sugli scaffali dei negozi con un disco che a prima vista pare concepito con intenzioni meno pretenziose, ma risulta senza ombra di dubbio riuscito quanto e forse più del precedente. L'evoluzione del personaggio, da pastorale profeta del neo-folk a songwriter raffinato, impegnato a dare forma al proprio flusso di coscienza mantenendosi in bilico tra urgenza interiore e sapida autoironia, ha ormai raggiunto il proprio culmine, facendo di Tillman uno dei personaggi cardine della scena posta esattamente a metà strada tra le istanze indie e il mainstream di qualità.
Quella che all'epoca avevamo definito "detonante confusione artistica" sta finalmente prendendo una forma ben definita, confermandosi cifra stilistica riconoscibile di un personaggio a volte sfuggente, spesso frainteso nella propria caustica interpretazione dell'icona pop con atteggiamento da consumato crooner, che spiazza regolarmente l'interlocutore nelle strampalate interviste, ultimamente concesse con una certa frequenza. Tillman è abile autore e performer eccellente; disco dopo disco sta mostrando una maturazione artistica invidiabile e questo 'God's Favorite Customer' ad oggi è -a parere di chi scrive- l'apice della sua produzione.
Come per 'Pure Comedy' gli stilemi musicali discendono direttamente dagli anni '70, con arrangiamenti in questa occasione più semplificati, che vedono in primo piano ora la chitarra, ora il pianoforte, senza l'invadenza di ulteriori orpelli, ovviamente con la voce in grande evidenza. Echi di Elton John, John Lennon, e Brian Wilson fanno qua e là capolino, senza evocare alcuna sgradevole sensazione di derivativo, ma a guisa di richiamo alla grande tradizione cantautorale. L'andamento dell'album è equamente suddiviso tra ballad e composizioni dall'impianto più massiccio; la scelta di limitare la tracklist a dieci brani fa sì che il disco scorra via praticamente in un soffio, convincendo ascolto dopo ascolto.
Brani migliori: la sincopata apertura di Hang Out at the Gallows, dotata di uno splendido arrangiamento "sospeso" che apre all'inciso con una granitica dinamica dall'afflato quasi teatrale, la sarcastica e autoironica Mr.Tillman, sorta di ode al disincanto di un artista a cui sta stretta l'omologazione, l'ossessiva Date Night, epica nell'interpretazione, con sentori glam e abbondanti stilettate di falsetto, e la title-track, flemmatica nell'andamento e seria nel testo. Punti più alti del lavoro la struggente Please Don't Die, l'amara The Songwriter, e la conclusiva We're Only People, tre spettacolari ballate che ci immergono nel mood più malinconico di Father John Misty, quello in cui l'autore si spinge fino a toccare i nervi scoperti delle emozioni.
Un lavoro immediato e per nulla sommesso che, a differenza del precedente, non necessita di troppi ascolti per essere metabolizzato; il cantautore da Rockville questa volta centra il bersaglio lavorando di cesello, allineando una tracklist davvero fortunata che ne esalta la capacità di scrittura e la concretezza interpretativa, inserendolo di diritto tra i grandi songwriters dei nostri tempi. Per questo ci permettiamo di chiudere la presente recensione citando pedissequamente la precedente: un posto tra i migliori dell'anno è già assicurato. (8,5/10)