domenica 28 maggio 2017

Recensioni Brevi: Sam Amidon, Bernard Fanning

Sam Amidon - The Following Mountain (Nonesuch)













Terzo album su Nonesuch, sesto in carriera, per il 35enne cantautore dal Vermont, uno dei più interessanti songwriters presentatisi sulle scene nell'ultimo decennio, sempre in bilico tra i generi, amatissimo dagli addetti ai lavori e con all'attivo collaborazioni importanti con nomi del calibro di Bill Frisell, Glen Hansard, Blind Boys Of Alabama e Nico Muhly. Come detto Amidon non è facilmente incasellabile in un genere, perché arricchisce il proprio lessico con influenze diverse e sonorità multiformi, in un dualismo tra modernità e tradizione molto affascinante che dona ai brani un afflato aulico, con slanci di impianto folk-cantautorale misti a deviazioni tra jazz ed elettronica. Decisivo l'apporto di un produttore come Leo Abrahams (Paul Simon, Ed Harcourt, Imogen Heap) ma soprattutto degli eccezionali musicisti ospitati: Milford Graves, Sam Gendel e Shahzad Ismaily, poli-strumentisti in grado di affrontare gli intricati percorsi musicali dell'autore con grande mestiere e raffinatezza. A volte Amidon tende a complicarsi le cose un po' da solo, esempio lampante la scelta di iniziare il disco con Fortune e Ghosts, i due brani meno "potabili" del lotto, quasi a voler creare uno scoglio da superare per l'ascoltatore, oppure quando affoga interessanti intuizioni musicali in una estenuante maratona di involuta improvvisazione, come accade nei dodici minuti della conclusiva April. Tutto il resto è invece decisamente sopra la media, tra tutte la ballad drakeiana Juma mountain, l'eterea Gendel in 5 e la sospesa Warren, grandi brani, sicuramente non di facile presa ma tutti da scoprire. (7,5/10)


Bernard Fanning - Brutal Dawn (Island)













Un'alba brutale segue il crepuscolo della civiltà; è questo il messaggio lanciato dall'ex-frontman degli australiani Powderfinger con 'Brutal Dawn', seguito di quel 'Civil Dusk' che ha dominato le classifiche australiane di genere per gran parte dello scorso anno, aggiudicandosi anche un riconoscimento nel corso degli ARIA 2016. Da sempre Fanning tenta di mantenere il proprio percorso artistico ad una distanza di sicurezza dal mero attivismo politico, ma nella sua poetica sono chiaramente inserite istanze sociali e prese di posizione, soprattutto in favore delle minoranze che, anche down-under, vivono situazioni ben lontane da quell'integrazione e quel progresso con cui spesso i politici si riempiono la bocca. Musicalmente siamo lontani dalla potenza post-grunge della band da Brisbane che il nostro ha guidato per oltre vent'anni, il genere è un roots-rock abbastanza raffinato, con acustiche, violini ed organo in bell'evidenza. Prodotto negli studi La Cueva di Byron Bay da Nick DiDia (Bruce Springsteen, Aimee Mann, Pearl Jam), il disco mette sul piatto un gran suono, che dà a composizioni come la sincopata Shed my skin, la younghiana How many times e la soulful Isn't it a pity un forte appeal, soprattutto in prospettiva radiofonica. Ma anche Say you're mine, No name lane e Fighting for air non sono da meno. Fanning canta decisamente bene, è un autore che non ha paura di schierarsi, inserito in un ambiente un filo isolato per poter puntare a fasti di livello internazionale, ma ha realizzato un album che, assieme al precedente, merita senza ombra di dubbio un po' di attenzione. (7,5/10)