Noto ai più per il lavoro svolto in
studio e sul palco al fianco di Lucinda Williams, Mary Gauthier e Ray
Wylie Hubbard, il sessantaseienne cantautore e produttore, originario
dello stato di New York ma da tempo stabilmente insediato in Texas,
dal 2000 ad oggi ha pubblicato nove album a proprio nome e questo The
Soul And The Heal ha tutte le carte in regola per essere considerato
il migliore del lotto.
Siamo di fronte ad un onesto disco di
Americana, registrato da Morlix nei propri Rootball Studios di
Austin. Il nostro, oltre a cantare, si occupa di tutti gli strumenti ad esclusione della batteria, lasciata nelle sapienti mani del
veterano Rick Richards (Georgia Satellites, Tom Russell, Warren
Zevon).
L'impianto è minimale e oscuro, con
strutture spesso di derivazione blues, come nell'iniziale Deeper
down, brano dall'anima gospel con una solida base ritmica, sulla
quale si innestano chitarre inquiete e un bell'organo. Morlix lo
interpreta con vigore, non è un virtuoso della voce ma c'é molta
sostanza nel suo modo di approcciare i brani.
Ancora blues e un ospite, l'hobo canadese Ray Bonneville all'armonica, nella cadenzata Bad things,
brano potente che sa di fumo e sudore, con uno splendido lavoro di
chitarra elettrica e un suono generale che ricorda le migliori
produzioni di Daniel Lanois o Malcolm Burn. Notevole la successiva
Cold here too, ballata
obliqua, con il 4/4 lento costantemente "tirato indietro" da Richards,
ad aumentare la drammaticità del mood.
Ma non
sono solo i tempi lenti a dominare il lavoro, c'é spazio per
l'up-tempo dal gusto vagamente reggae di Right now,
per il rock "quadrato"
di Quicksilver kiss,
canzone che ad ascoltarla viene da pensare che starebbe bene in un album degli Eels, e per il
boogie-rock di My chainsaw, brano stradaiolo di grana grossa ma
decisamente gustoso.
Move someone vede la steel guitar in bella evidenza, su un tessuto sonoro
roots con una ritmica younghiana e un bel lavoro di voci; a parere di chi scrive è il
pezzo migliore del lavoro, un brano che lascia il segno. Grande intensità in chiusura, con la morbida ballata The best we can,
nella quale chitarra acustica e steel tessono languide trame, fra le quali si insinua la voce roca e vissuta di Morlix.