venerdì 10 febbraio 2017

Gurf Morlix - The Soul And The Heal (Rootball)


Noto ai più per il lavoro svolto in studio e sul palco al fianco di Lucinda Williams, Mary Gauthier e Ray Wylie Hubbard, il sessantaseienne cantautore e produttore, originario dello stato di New York ma da tempo stabilmente insediato in Texas, dal 2000 ad oggi ha pubblicato nove album a proprio nome e questo The Soul And The Heal ha tutte le carte in regola per essere considerato il migliore del lotto.

Siamo di fronte ad un onesto disco di Americana, registrato da Morlix nei propri Rootball Studios di Austin. Il nostro, oltre a cantare, si occupa di tutti gli strumenti ad esclusione della batteria, lasciata nelle sapienti mani del veterano Rick Richards (Georgia Satellites, Tom Russell, Warren Zevon).
L'impianto è minimale e oscuro, con strutture spesso di derivazione blues, come nell'iniziale Deeper down, brano dall'anima gospel con una solida base ritmica, sulla quale si innestano chitarre inquiete e un bell'organo. Morlix lo interpreta con vigore, non è un virtuoso della voce ma c'é molta sostanza nel suo modo di approcciare i brani.

Ancora blues e un ospite, l'hobo canadese Ray Bonneville all'armonica, nella cadenzata Bad things, brano potente che sa di fumo e sudore, con uno splendido lavoro di chitarra elettrica e un suono generale che ricorda le migliori produzioni di Daniel Lanois o Malcolm Burn. Notevole la successiva Cold here too, ballata obliqua, con il 4/4 lento costantemente "tirato indietro" da Richards, ad aumentare la drammaticità del mood.

Ma non sono solo i tempi lenti a dominare il lavoro, c'é spazio per l'up-tempo dal gusto vagamente reggae di Right now, per il rock "quadrato" di Quicksilver kiss, canzone che ad ascoltarla viene da pensare che starebbe bene in un album degli Eels, e per il boogie-rock di My chainsaw, brano stradaiolo di grana grossa ma decisamente gustoso.

Move someone vede la steel guitar in bella evidenza, su un tessuto sonoro roots con una ritmica younghiana e un bel lavoro di voci; a parere di chi scrive è il pezzo migliore del lavoro, un brano che lascia il segno. Grande intensità in chiusura, con la morbida ballata The best we can, nella quale chitarra acustica e steel tessono languide trame, fra le quali si insinua la voce roca e vissuta di Morlix.

Un album che esce in sordina, autoprodotto e certamente latore di un genere musicale lontano dal mainstream ma carico di un'onestà che non va trascurata. Merita più di un ascolto.