mercoledì 31 maggio 2017

Roger Waters - Is This The Life We Really Want? (Columbia)


Al primo ascolto di questo attesissimo nuovo album firmato dal 73enne ex-Pink Floyd, ci si scopre pervasi da una sensazione di smarrimento, una sorta di dualismo pruriginoso che condiziona in qualche modo l'approccio al disco. Da una parte si auspicherebbe un Waters fortemente determinato  a ridurre al minimo ogni forma di auto-citazione o di richiamo ad un passato che più ingombrante non si può, coadiuvato nella produzione da un personaggio moderno e sensibile come Nigel Godrich (Radiohead, Beck); dall'altra si aguzzano le orecchie nella spasmodica attesa di rassicuranti stilemi floydiani che ci facciano piacevolmente sobbalzare sulla poltrona come ai proverbiali bei vecchi tempi. 

Mai come in questo disco l'allampanato bassista dal Surrey ha saputo lavorare in pacifica continuità con il glorioso passato, libero dagli oscuri fantasmi che lo perseguitavano dai tempi di The Final Cut e conscio di avere ancora qualcosa di importante da esprimere, con le consuete semplici ma ficcanti parole che spesso gli alienano le simpatie di una parte del pubblico ma contribuiscono a mantenere una invidiabile coerenza, non solo musicale. Waters ci ha messo un quarto di secolo a dare un seguito a quell'Amused To Death figlio, come gran parte della sua discografia, di conflitti interiori e tra civiltà, testimone della preoccupante vertiginosa deriva mediatica verso un'inevitabile saturazione.

Dopo aver dato una forma definitiva in sede live al lavoro più monumentale della carriera, quel The Wall che causò l'implosione della sua creatura musicale, dando il via a traversie legali e personali durate fin troppo a lungo, Waters può permettersi di comporre lasciando da parte le angosce più profonde, gettando uno sguardo sulla attualità vissuta molto da vicino, nella veste scomoda di cittadino della più grande e controversa democrazia del pianeta. Ecco quindi un ritorno alle atmosfere di album come Animals e Dark Side Of The Moon, ma anche qualche episodio più intimo e delicato, che ci mostra un autore che non ha più paura di mostrare la propria sensibilità.

Come in passato il Nostro inserisce voci, suoni ed effetti radiofonici tra i brani, ed è proprio con la sua voce che si apre l'album; nel minuto abbondante di When we were young, sinistra introduzione con tanto di orologio a scandire il tempo, Waters sovrappone sé stesso, domande e risposte con una conclusione decisamente perentoria:"Our parents made us who we are...or was it God? Who gives a fuck? It's never really over", da cui si dipana Déjà vu, acustica ballata amara che ha anticipato l'album riscaldando i cuori dei fans più accaniti, con chitarra, piano e voci che richiamano i quattro quarti lenti migliori prodotti dalla band londinese. Immediatamente si capisce che l'apporto di Godrich non comporterà sperimentazioni di alcun tipo ma solamente l'infusione di sostanza e carattere all'insieme.

The last refugee rimane in un mood lento, con una bella ritmica della batteria di Joey Waronker ed ampi spazi tra gli accordi, nei quali Waters può inserire il proprio cantato epico e teatrale, contrappuntato da quello etereo e armonico delle Lucius. Testo toccante e attualissimo per un grande brano. Più cattiva e spinta Picture that, con liriche crude gettate violentemente su una base che alterna strofe in crescendo e ritornelli in forma di blues rock sincopato, che riporta alla parte centrale della storica Money,  pur se dominato da una frase di synth molto presente. Broken bones parte notturna, con pennate discontinue di chitarra e Waters che si schiarisce la voce; entrano gli archi e il brano prende quota, grazie anche ad un mix perfetto che ci sbatte in faccia la voce durante le strofe e crea un tessuto sonoro profondo e commovente, con la chitarra solista ad emettere urla lancinanti.

La title-track è forse il brano nel quale l'apporto di Godrich si fa più riconoscibile, c'é un sapore di Radiohead inconfondibile, nella chitarra arpeggiata, nella batteria dall'abbrivio quasi elettronico e nello special con il pianoforte molto effettato che fa aprire il brano in maniera drammatica. Waters canta e recita, con voce grossa e sabbiosa, grande interpretazione. Bird in a gale prorompe in maniera devastante, con quasi due minuti di intro e la voce che entra filtrata e sconnessa, siamo decisamente in territori vicini a The Wall e The Final Cut; il finale è sospeso, con gran sfoggio di effetti e samples.

In questo punto l'album mostra l'aspetto intimo, per certi versi inaspettatamente romantico, con la lirica The most beautiful girl,  ricca nell'arrangiamento, con il piano a cadenzare lieve su architetture ariose di archi e fiati, e il trittico finale formato dalle sussurrate Wait for herOceans apart e Part of me died, che in pratica sono le tre parti del corpo di un unico lungo brano, con le voci delle Lucius trasformate in vero e proprio strumento e una chitarra elettrica che pare rimasta collegata all'amplificatore dai tempi di Confortably numb. Nel mezzo l'altro singolo lanciato come anteprima dell'album, la rockeggiante Smell the roses, diretta discendente di Have a cigar, con un interessante intermezzo centrale psichedelico.

Waters ha una cifra stilistica importante e riconoscibile. Checché ne dicano i fans di Gilmour,  è innegabile il fatto che negli anni '70 i Pink Floyd fossero una sua propaggine. I detrattori parleranno di ripetitività e di abuso di formula vincente ma per chi ha amato in maniera viscerale la band c'é molto di che gioire, Waters non è un tipo che ama deludere le attese. (8/10)