giovedì 18 maggio 2017

Justin Townes Earle - Kids In The Street (New West)


Primo album pubblicato sotto l'egida della attivissima New West di John Allen per il 35enne cantautore da Nashville, il quale, disco dopo disco, si è decisamente affrancato dal peso del nome e cognome ingombrante che porta. Sono passati ormai dieci anni dall'uscita di 'Yuma', onesto EP che presentava un giovane Earle reduce da vicissitudini personali piuttosto serie, cantautore ancora acerbo e, forse inconsapevolmente, sulle tracce del padre Steve. Di acqua ne è passata parecchia sotto i ponti e il nostro ha potuto raggiungere uno status come autore ed esecutore di altissimo livello, più volte premiato da pubblico e critica.

Per questo settimo album in carriera, Earle ha deciso un po' a sorpresa, visto che di questi tempi tutti farebbero carte false per poter registrare a Nashville, di lasciare il Tennessee e recarsi in Nebraska, dall'amico Mike Mogis (Bright Eyes, First Aid kit, Conor Oberst), titolare degli studi ARC di Omaha.
Questo gli ha permesso di concepire l'album evitando le distrazioni della vita quotidiana nel luogo d'origine e di collaborare con un gruppo di lavoro inedito e stimolante. Il risultato è forse il disco migliore prodotto finora da Earle, una raccolta con dodici brani riusciti, che passano in rassegna il suono Americana in maniera brillante.

Si parte spediti, con lo stacco di rullante slabbrato che apre il singolo Champagne corolla, un groovoso rockabilly con tanto di sezione fiati. Il brano è coinvolgente, Earle lo canta con il consueto stile un po' strascicato e il pezzo cresce, non poteva esserci inizio migliore. Maybe a moment è una ballad più canonica, che può contare su un ritornello ben scritto, con belle chitarre acustiche e un gustoso lavoro di organo. Il classico brano dal mood cinematografico che possiamo immaginare trasmesso dalla radio di un'auto lanciata in corsa su una highway statunitense.

E' il momento giusto per estrarre la lap steel dalla custodia, ecco dunque What's she crying for, con il più classico western-shuffle sorretto dal piano e da una batteria suonata con le spazzole; le atmosfere si fanno decisamente country e il brano scorre via con semplicità. L'intro di 15-25 è potentissimo, apre la strada ad una ritmica New Orleans-style molto coinvolgente. Earle si atteggia un po' a crooner e porta a casa uno dei pezzi migliori del lotto; gran brano molto ben strutturato, che potrebbe sembrare lontano mille miglia dal ragazzo occhialuto dall'aria stralunata che campeggia sulla copertina del disco, ma funziona eccome, anche grazie ai bei soli centrali di pianoforte e vibrafono.

E' il momento della title-track e Justin estrae dal cilindro una languida ballata per voce e chitarre, splendidamente tra Springsteen e Nelson, con la lap steel ancora protagonista. Dopo due pezzi di grande spessore è il caso di alleggerire l'atmosfera, ecco di nuovo uno shuffle campestre, con il country blues acustico di Faded Valentine, composizione che gode di un arrangiamento particolarmente azzeccato, con mandolino, contrabbasso e vibrafono ad arricchire di colore un brano dalla struttura non originalissima ma onesto e ben cantato da Earle.

Ancora in territorio acustico, questa volta con un groove jazzy, la successiva What's goin' wrong, nella quale spicca un clarinetto che gioca ad inseguirsi con la lap steel, creando un umore terzinato molto fresco. E' decisamente interessante la scelta di inserire strumenti poco canonici nei brani, per creare panorami sonori concettualmente tradizionali ma dalle forme inedite e originali.
Torniamo alle atmosfere speziate della Louisiana con Short hair woman, pezzo dalle parti strumentali potenti, con una ritmica rumorosa e coinvolgente, un gran giro di basso e un organo indiavolato, altro gran brano con il quale è davvero dura tenere fermo il piedino. 

Un salto nel folklore tradizionale, citando l'ormai epica vicenda di Stagger Lee, sorta di filo conduttore nell'epopea del folk americano, con la minimale Same old Stagolee, ballata sincopata in finger-picking, arricchita dai contrappunti dell'ormai familiare vibrafono. Il titolo del brano seguente lascia pochi dubbi: If I was the devil è un blues oscuro e riverberato, con una batteria distante che suona come una frustata, un organo Hammond infuocato e chitarre morriconiane a creare un'atmosfera desertica spettacolare, per chi scrive pezzo migliore dell'album.

Ma Earle ha ancora due pallottole da spendere. La prima è il rockabilly sghembo di Trouble is, che dopo tanto ben di dio appare fin troppo normale, pur essendo un pezzo divertente e suonato alla grande, soprattutto dal reparto chitarre. Per chiudere il nostro sceglie invece la delicata There go a fool, ballatona dal cuore soul, con begli inserti corali, un maestoso organo e un'interpretazione vocale magistrale, perfetta conclusione per un lavoro maturo, tanto ricco musicalmente quanto godibile. Un altro posto nelle classifiche di fine anno pare essere stato ipotecato. (8,5/10)