giovedì 2 febbraio 2017

Mike Oldfield - Return to Ommadawn (Virgin)


Ventiseiesimo album in studio per il 63enne compositore e polistrumentista del Berkshire che, ad un passo dai 50 anni di carriera, compie un balzo indietro nel tempo per regalarci il seguito del terzo capitolo della propria sterminata discografia, quell'Ommadawn nato all'ombra del successo di Tubular Bells ed Hergest Ridge, ma considerato dai fans e dalla critica uno degli episodi più riusciti nel lungo percorso discografico del nostro.

Oldfield è stato spesso incolpato di essere un artista tendente all'involuzione, di aver basato la propria fortuna su una serie di cliché ripetuti fino allo sfinimento, zeppi di autocitazioni e rimandi al passato. Se per alcune opere minori l'accusa può essere fondata, bisogna ammettere che pochi artisti sono riusciti a mantenere un'integrità tale da permettersi di attraversare pressoché indenni decenni di storia musicale, senza perdere la propria identità o aver modificato in maniera sostanziale la visione musicale/artistica.

Come il predecessore, anche questo nuovo lavoro si articola in due movimenti, ognuno della durata di venti minuti abbondanti, nei quali Oldfield snocciola il consueto repertorio di atmosfere soffuse e vibranti, cambi di tempo, virtuosismi chitarristici e reminiscenze delle opere precedenti.
Il risultato è un disco che difficilmente potrà essere incasellato in un unico genere ma che, come spesso successo nella carriera del musicista britannico, accarezzerà i sensi degli appassionati di new age e folk britannico, così come quelli dei progsters più incalliti, senza dimenticare gli amanti di certa world music di stampo celtico.

Registrato a Nassau, nelle Bahamas, da tempo patria adottiva del nostro, l'album vede come da tradizione Oldfield alle prese con tutti gli strumenti: dalle chitarre all'arpa celtica, dalle percussioni alle tastiere. Sono ovviamente gli strumenti a corda le fondamenta su cui Mike appoggia le elaborate strutture dell'opera, costruendo, con una parca dotazione di percussioni, semplici sezioni ritmiche sulle quali si innestano svolazzi melodici eseguiti ora con l'acustica ora con l'elettrica. Fondamentale è anche l'apporto dei tin whistles, utilizzati pressoché in tutto l'album, per conferire un sapore irish alle composizioni.

Part One si apre con una base per synth e flauti, di stampo progressive, sulla quale si innesta una tenue chitarra solista che lascia in breve spazio ad un basso e una elettrica ostinati che fanno da sfondo alle evoluzioni di una chitarra flamenco. Glockenspiel e synth aprono lo scenario alla ripetizione di una frase per chitarra e basso che rimanda direttamente a Tubular Bells, tanto che ci si aspetta da un momento all'altro di sentire la voce del maestro di cerimonie Vivian Stanshall.

La ritmica prende piede e finalmente arriva la chitarra solista, con quel suono riconoscibilissimo che ha fatto la fortuna del nostro, un momento molto godibile che sa di antica ballata folk, seguito da un intermezzo per acustica, artefatta da un delay molto presente e sostenuta dal solo apporto di synth e mandolino in un crescendo quasi gioioso, certamente la parte migliore di questo lavoro. Il fraseggio non è originalissimo ma, grazie all'arrangiamento studiato con molto gusto, scorre leggero e piacevole.

L'alternanza di parti ostinate e momenti più rilassati crea la giusta atmosfera e fa sì che il brano non risenta di momenti di stanca; quando si è entrati definitivamente nel mood del lavoro, Oldfield innesta la quarta e inserisce le percussioni africane, creando una ritmica forse fin troppo semplicistica ma con il giusto impatto sonoro per creare una potente base su cui innestare delle acustiche flamenco decise e marziali ed il proprio solismo elettrico, che raggiunge l'apice poco prima del finale del brano, nel quale le atmosfere tornano sognanti e tenui.
Part Two parte più spedita, con acustica, mandolino e synth a creare una melodia di stampo vagamente mediterraneo, che conduce l'ascoltatore verso un altro placido intermezzo con il pianoforte in bell'evidenza e sinuose armonie vocali registrate da Oldfield per l'Ommadawn originale, recuperate per l'occasione.

Gli intrecci di acustica ed elettrica aggiungono intensità alla composizione ed aprono la strada ad un'altra sezione caratterizzata da un andamento marziale e sostenuto, nella quale il basso si fa carico della ritmica e Oldfield può dar sfogo alla propria arte chitarristica, sovrapponendo suoni e colori, giocando come d'abitudine con frasi ripetute sulle quali si innestano contrappunti e melodie. Il gioco funziona, come in precedenza, grazie alla parca strumentazione utilizzata; la quasi totale assenza di percussioni alleggerisce l'insieme e fa si che i cambi di ritmo, sebbene poco incisivi in alcuni frangenti, siano poco ridondanti.

La parte centrale del brano è il momento più movimentato dell'album, con l'afflato militaresco tenuto dal bodhran a scandire il tempo e le elettriche rapide ad inseguirsi. Qualcosa riporta anche alle recenti colonne sonore di film fantasy, stile Signore Degli Anelli, nelle quali le commistioni tra rock, new age e suoni celtici sono ormai una tradizione consolidata. Oldfield per fortuna è molto bravo a salvarsi in corner, tirando il freno al momento giusto e inserendo qua e là piccole oasi di folk acustico che riportano a certa tradizione albionica, scaricando così la tensione emotiva del lavoro.

La parte conclusiva del secondo movimento si apre dunque con un morbido arpeggio di chitarra che fa da ponte verso il classico finale antemico in crescendo, in perfetto Oldfield-style, nel quale le chitarre si fanno più taglienti e la costruzione armonica prevede una chiusa secca e, come spesso succede nei dischi del nostro, vagamente ironica. Anche in questa fase si apprezza la scelta di non utilizzare strumenti percussivi dal forte impatto, che renderebbero il tutto fin troppo prevedibile e scontato.

In definitiva un album che piacerà ai fans storici, in piena continuità con quanto proposto dal chitarrista di Reading nel corso della lunga carriera, ma che può rappresentare anche un buon punto di partenza nell'approccio alla musica del nostro, costituendo una sorta di ponte tra passato e presente, scevro dalle implicazioni cerebrali o dai virtuosismi fini a sé stessi che in alcune occasioni hanno caratterizzato i lavori più oscuri firmati da Oldfield.