Ventiseiesimo album in studio per il 63enne compositore e polistrumentista del Berkshire che, ad un passo dai 50 anni di carriera, compie un balzo indietro nel tempo per regalarci il seguito del terzo capitolo della propria sterminata discografia, quell'Ommadawn nato all'ombra del successo di Tubular Bells ed Hergest Ridge, ma considerato dai fans e dalla critica uno degli episodi più riusciti nel lungo percorso discografico del nostro.
Oldfield è stato spesso incolpato di essere un
artista tendente all'involuzione, di aver basato la propria fortuna
su una serie di cliché ripetuti fino allo sfinimento, zeppi di
autocitazioni e rimandi al passato. Se per alcune opere minori
l'accusa può essere fondata, bisogna ammettere che pochi artisti
sono riusciti a mantenere un'integrità tale da permettersi di
attraversare pressoché indenni decenni di storia musicale, senza
perdere la propria identità o aver modificato in maniera sostanziale
la visione musicale/artistica.
Come il predecessore, anche questo nuovo lavoro si
articola in due movimenti, ognuno della durata di venti minuti
abbondanti, nei quali Oldfield snocciola il consueto repertorio di
atmosfere soffuse e vibranti, cambi di tempo, virtuosismi
chitarristici e reminiscenze delle opere precedenti.
Il risultato è un disco che difficilmente
potrà essere incasellato in un unico genere ma che, come spesso
successo nella carriera del musicista britannico, accarezzerà i
sensi degli appassionati di new age e folk britannico, così come
quelli dei progsters
più incalliti, senza dimenticare gli amanti di certa world music di
stampo celtico.
La ritmica prende piede e
finalmente arriva la chitarra solista, con quel suono
riconoscibilissimo che ha fatto la fortuna del nostro, un momento
molto godibile che sa di antica ballata folk, seguito da un
intermezzo per acustica, artefatta da un delay molto presente e
sostenuta dal solo apporto di synth e mandolino in un crescendo quasi
gioioso, certamente la parte migliore di questo lavoro. Il fraseggio
non è originalissimo ma, grazie all'arrangiamento studiato con molto
gusto, scorre leggero e piacevole.
L'alternanza di parti
ostinate e momenti più rilassati crea la giusta atmosfera e fa sì
che il brano non risenta di momenti di stanca; quando si è entrati
definitivamente nel mood del lavoro, Oldfield innesta la quarta e
inserisce le percussioni africane, creando una ritmica forse fin
troppo semplicistica ma con il giusto impatto sonoro per creare una
potente base su cui innestare delle acustiche flamenco decise e
marziali ed il proprio solismo elettrico, che raggiunge l'apice poco
prima del finale del brano, nel quale le atmosfere tornano sognanti e
tenui.
Part Two
parte più spedita, con acustica, mandolino e synth a creare una
melodia di stampo vagamente mediterraneo, che conduce l'ascoltatore
verso un altro placido intermezzo con il pianoforte in bell'evidenza
e sinuose armonie vocali registrate da Oldfield per l'Ommadawn
originale, recuperate per l'occasione.
Gli intrecci di acustica
ed elettrica aggiungono intensità alla composizione ed aprono la
strada ad un'altra sezione caratterizzata da un andamento marziale e
sostenuto, nella quale il basso si fa carico della ritmica e Oldfield
può dar sfogo alla propria arte chitarristica, sovrapponendo suoni e
colori, giocando come d'abitudine con frasi ripetute sulle quali si
innestano contrappunti e melodie. Il gioco funziona, come in
precedenza, grazie alla parca strumentazione utilizzata; la quasi
totale assenza di percussioni alleggerisce l'insieme e fa si che i
cambi di ritmo, sebbene poco incisivi in alcuni frangenti, siano poco
ridondanti.
La parte centrale del
brano è il momento più movimentato dell'album, con l'afflato
militaresco tenuto dal bodhran a scandire il tempo e le elettriche
rapide ad inseguirsi. Qualcosa riporta anche alle recenti colonne
sonore di film fantasy, stile Signore Degli Anelli, nelle quali le
commistioni tra rock, new age e suoni celtici sono ormai una
tradizione consolidata. Oldfield per fortuna è molto bravo a
salvarsi in corner, tirando il freno al momento giusto e inserendo
qua e là piccole oasi di folk acustico che riportano a certa
tradizione albionica, scaricando così la tensione emotiva del
lavoro.
La parte conclusiva del
secondo movimento si apre dunque con un morbido arpeggio di chitarra
che fa da ponte verso il classico finale antemico in crescendo, in
perfetto Oldfield-style, nel quale le chitarre si fanno più
taglienti e la costruzione armonica prevede una chiusa secca e, come
spesso succede nei dischi del nostro, vagamente ironica. Anche in
questa fase si apprezza la scelta di non utilizzare strumenti
percussivi dal forte impatto, che renderebbero il tutto fin troppo
prevedibile e scontato.
In definitiva un album che
piacerà ai fans storici, in piena continuità con quanto proposto
dal chitarrista di Reading nel corso della lunga carriera, ma che può
rappresentare anche un buon punto di partenza nell'approccio alla
musica del nostro, costituendo una sorta di ponte tra passato e
presente, scevro dalle implicazioni cerebrali o dai virtuosismi fini
a sé stessi che in alcune occasioni hanno caratterizzato i lavori
più oscuri firmati da Oldfield.