giovedì 5 marzo 2009

J.Tillman - "Vacilando Territory Blues" (Bella Union)


Per diverso tempo il ventisettenne Joshua “J.” Tillman è stato liquidato dalla critica come semplice epigono di Nick Drake, autore di oneste strutture folk-rock plumbee e minimali, prive di qualsivoglia sentore di originalità. Gli album precedentemente pubblicati su etichetta Autumn Tone sono passati pressoché inosservati, eppure tra le tracce di I Will Return, Long May You Run e Cancer And Delirium, di recente ristampati, vi era più di un motivo di interesse.

Quando ormai il destino di questo onesto musicista pareva indirizzarsi verso il dimenticatoio, ecco il classico colpo di scena: Tillman trova posto stabilmente dietro ai tamburi di una band di Seattle in piena ascesa, quei Fleet Foxes che monopolizzeranno l’attenzione dei media di settore per lunga parte del 2008. Il tour mondiale intrapreso dal gruppo a supporto dell’album omonimo, vede come opening-act lo stesso Tillman, che si ritrova così catapultato rapidamente verso l’attenzione del grande pubblico.

Di lì alla firma di un contratto con la medesima etichetta della band, la sempre attiva Bella Union, il passo è brevissimo. Tillman pubblica dunque questo Vacilando Territory Blues, col quale ancora una volta mette in mostra le proprie doti di cantautore malinconico, tra blues e country, chiaramente influenzato dal primo Neil Young.

Ben inserito in una scena acustica che in America ha ritrovato nuovo splendore, Tillman ha dalla sua una voce facilmente riconoscibile, calda e sabbiosa, in alcuni momenti similare a quella del miglior Ray LaMontagne. L’esperienza coi Foxes ha certamente aiutato Tillman a sviluppare una vocalità solida ed intensa ed influenza positivamente le sonorità dei brani.
Rispetto ai lavori precedenti si nota una maggiore attenzione a livello compositivo, c’è più varietà nella scrittura e negli arrangiamenti, sempre minimali ma adeguati ad un tessuto sonoro intimista, scevro da banalità o cadute di tono.

L’intro di All You See, meno di un minuto 100% Fleet Foxes, apre la strada alla chitarra decisa di No Occasion, pezzo nel quale voce, pianoforte, percussioni ed archi costruiscono un inciso dolcemente malinconico. Il bel testo completa un brano di una semplicità disarmante, splendido nell’incedere poetico.
First Born, scelta anche come singolo ha più di un punto in comune con la band di Robin Pecknold, pur senza la complessità degli impasti vocali. Anche in questo caso chitarra, piano,claps e poco altro, ma grande sostanza. La stessa che permea James Blues, caratterizzata da un testo pregno, cantato con voce intubata, quasi Tillman registrasse da un’altra stanza.

Steel on Steel accelera verso un soul distorto, la batteria in primo piano, organo e chitarre circondati da una moltitudine di suoni e un ritornello terzinato che si inchioda in testa.
Laborless Land, è ballata younghiana fino al midollo, ha uno sviluppo melodico molto particolare, cresce gradualmente verso un finale a più voci di grande impatto. Gran pezzo.

Barter Blues esordisce con le chitarre in bell’evidenza, ballata lenta e meditativa nella quale Tillman dà il meglio a livello vocale, pezzo che pare tratto dal repertorio del compianto Chris Whitley; sette minuti e mezzo straordinari.
New Imperial Grand Blues parte nel caos, con fiati e rumori in libertà, trasformandosi poi in un blues ostinato e martellante con palesi influenze albioniche.
Above All Men viaggia su ritmiche mid-tempo più consone al Nostro, il quale può sfoggiare di nuovo le buone doti canore.
La conclusiva Vacillando Territory, folk acustico nel quale i silenzi suonano pesanti come macigni, è la sommessa conclusione per un album che non avrà la pretesa di cambiare il corso della storia ma riesce ad emozionare con poesia e passione.