di Chris Airoldi
Un famosissimo proverbio recita:"chi ben comincia è a metà dell'opera"; volessimo applicare la saggezza popolare nell'approccio verso questa terza fatica discografica del nord-irlandese Matt McGinn, probabilmente dovremmo aspettarci un lavoro da 10/10, visto che il primo brano, la title-track, è un pezzo spettacolare, con tutti gli ingredienti che rendono una canzone perfetta: attacco maestoso, grande voce, arrangiamento ricco ma totalmente al servizio del brano. Una partenza di questo livello costituisce senza ombra di dubbio un biglietto da visita impegnativo; fortunatamente l'hype positivo originato dall'apertura è ampiamente confermato dal resto del lavoro, un album convincente, con la bella voce di McGinn perfettamente inserita in un contesto caratterizzato da un suono molto caldo e coinvolgente, nel quale le influenze folk della terra d'origine si ibridano con gli stilemi cantautorali di stampo Americana.
Il 39enne McGinn non è un novellino, ha già alle spalle una buona discografia e si è fatto un nome in veste di polistrumentista e produttore al servizio di Jack O'Neill, Na Leana e Ben Glover, finendo a fare spesso la spola tra l'Irlanda del Nord e gli Stati Uniti. Questo nuovo lavoro è stato quindi registrato tra il Tennessee e la Contea di Down, in compagnia della band che in genere accompagna McGinn sul palco, più un paio di ospiti del calibro di Kris Donegan (Rick Rubin, Shania Twain) e Jon Thorne (Yorkstone/Thorne/Kahn, LAMB). La vocazione di McGinn è quella del cantautore vecchio stampo, il quale nella proposta musicale alterna le proprie vicende personali a disincantate riflessioni critiche sulla società, esponendosi politicamente senza farsi troppi problemi.
Dopo l'inizio deflagrante di The End of the Common Man, ecco The Right Name, brano di stampo rock tradizionale, mantiene alta le tensione del disco, pur senza la potenza espressiva di quello che l'ha preceduto. Seguono due ballate in qualche modo complementari: Somewhere To Run To è ritmata e sinuosa nello svolgersi, con un bel lavoro di organo e chitarre, ricorda in alcuni momenti i migliori Counting Crows. Marianne è invece delicata, sorretta da un gustoso arpeggio di acustica e dai contrappunti della steel guitar. Molto d'effetto il solo centrale, affidato ad un Theremin suonato con grande maestria dalla virtuosa Carolina Eyck, ad aggiungere drammaticità ad un brano che parla di disperazione e povertà con una poetica semplice ma molto intensa.
The Bells of the Angelus torna ai ritmi sostenuti, con un piano elettrico a dominare l'arrangiamento, tenendo la voce quasi in secondo piano. La bella apertura del ritornello, ben sostenuta dai fiati, spinge sull'acceleratore, lasciando McGinn libero di dar fondo alle proprie corde vocali, con un'intenzione quasi r'n'b che non dispiace affatto, altro buon brano, potremmo definirlo celtic-soul. The Overlanders è ancora una ballad tenue dall' arrangiamento semplice ma pulito ed efficace, nel quale le chitarre rivestono un ruolo fondamentale, pennellando atmosfere sognanti e accoglienti. Out Sinner è invece un folk-rock combattente che nonostante il bell'arrangiamento risulta il brano meno interessante del lotto, un po' troppo prevedibile nello svolgimento.
Medicine Joe è il brano più "americano" della raccolta; ha un retrogusto blues oscuro, che ci porta dalle parti di New Orleans, con un andamento volutamente ripetitivo molto intrigante. Fa da apripista a Trump, brano già circolato in rete corredato da un video molto divertente, nel quale McGinn esplicita il proprio pensiero circa l'attuale Presidente degli Stati Uniti. E' un divertimento un po' fine a sé stesso che all'economia del lavoro non procura grossi contraccolpi, ma nemmeno cali di tensione. Si arriva dunque al finale con la bella The End of Days, altra riflessione dolceamara in forma di ballata, con un finale caotico che chiude un lavoro fiero e orgoglioso, decisamente convincente, per un cantautore dalla penna ispirata, capace di produrre un album ricco e variegato che merita molta attenzione. (9/10)