martedì 2 maggio 2017

Recensioni Brevi: Robert Cray, Trombone Shorty

Robert Cray - Robert Cray & Hi Rhythm (Jay-Vee)













Robert Cray torna alle radici del proprio sound, scegliendo di registrare a Memphis il diciottesimo album di studio, in compagnia del batterista/produttore Steve Jordan, già dietro le quinte per Take Your Shoes Off (1999) e In My Soul (2014). Cray e Jordan non si sono limitati ad affittare i gloriosi Royal Studios del leggendario Willie Mitchell, sono anche riusciti a rimettere insieme gran parte della favolosa band presente negli storici album di Al Green, O.V.Wright, Ann Peebles e Otis Clay. I fratelli Charles (organo, piano) e Leroy Hodges (basso) ed il tastierista Archie Turner, assieme all'ospite di lusso Tony Joe White, sono dunque della partita e la loro presenza si fa sentire in termini di esperienza, groove e suono, permettendo al chitarrista della Georgia di portare a termine uno dei lavori più interessanti della propria quarantennale carriera. La tracklist prevede tre brani composti da Cray: il soulful sognante della greeniana The way we are, il blues trascinato di Just how low e la ballad a ritmo di beguine You had my heart, composizione con il classico marchio di fabbrica del nostro. Il resto è una bella sequela di cover: la leggera Aspen, Colorado e la tosta Don't steal my love, entrambe dal songbook di White,  The same love that made me laugh, sincopato brano firmato da Pick Whiters,  e due brani di Sir Mac Rice (l'autore di Mustang Sally): l'ostinata I don't care e la funkeggiante Honey bad. Forse qualcuno avrà di che lamentarsi per le troppe cover o per una formula che nel corso dei decenni ha subito pochissime modifiche, ma la vitalità e la coesione di questa raccolta di brani ci regalano un album godibile dalla prima all'ultima nota, e non è poco.(7,5/10)


Trombone Shorty - Parking Lot Symphony (Blue Note)













Troy Andrews, meglio conosciuto come Trombone Shorty, è uno degli esponenti di punta della attuale scena black americana, quella in perenne bilico tra tradizione e modernità, legata a svariati linguaggi musicali, spesso graditi anche ad un pubblico mainstream bianco. La commistione di stili, in un'epopea musicale funk/RnB che trasporta l'ascoltatore dalle atmosfere del jazz di New Orleans alle ambientazioni hip-hop, è la cifra stilistica di un autore tra i più dotati della propria generazione. Andrews ha dalla sua una eccellente preparazione musicale ma anche una grande esperienza acquisita collaborando con nomi del calibro di Dr.John, Eric Clapton, Lenny Kravitz e Jeff Beck, personaggi che hanno portato il suo stile ad aprirsi verso le influenze più disparate. Prova ne è questo interessante album, il primo per la storica etichetta Blue Note, nel quale Troy e i fidati Orleans Avenue danno libero sfogo al groove, rinnovando il New Orleans sound con brani come Laveau dirge no.1, Tripped out slim e Here come the girls, strizzando l'occhio all'hip-hop con le cariche Familiar e Dirty Water, e creando un cocktail di stili irresistibile in No good time, It ain't no use e Fanfare, punti più alti del lavoro. Un album stimolante e coinvolgente, che merita più di un ascolto. (7,5/10)