martedì 4 aprile 2017

Recensioni brevi: Timber Timbre, Happyness

Timber Timbre - Sincerely, Future Pollution (City Slang)













Il combo canadese, guidato dall'inquieto Taylor Kirk, prosegue la propria evoluzione stilistica, allontanandosi ulteriormente dall'oscuro folk-rock degli esordi, con la pubblicazione di questo sesto lavoro in studio nel quale tastiere e suoni elettronici tratteggiano atmosfere dark-wave e noisy, con un retrogusto cinematografico che dona ai pezzi un fascino metropolitano, molto lontano dalla ruralità degli esordi. Basso e batteria sono inseriti sommessamente in un tessuto greve, appesantito da effetti carichi e riverberati, fatto di accordi mantenuti ossessivamente, sui quali la voce ai limiti del recitato di Kirk si inserisce con movenze ispirate al miglior Nick Cave, sebbene risulti dotata di un timbro  meno cavernoso e personale. A differenza dei precedenti album, nei quali le liriche avevano la tendenza ad indagare angoli nascosti dell'animo umano, scomodando demoni e allegorie, in questo caso siamo di fronte ad un lavoro che affonda le unghie nell'attualità, soprattutto politica. Ecco dunque la malinconica disperazione di Velvet gloves and spit Sewer blues, le reminiscenze Lynchiane di Floathing cathedral e Skin tone, e le fascinazioni wave di Grifting e Western questions, brani migliori di un album che pare figlio di una dimensione parallela, fuori dal tempo. (7,5/10)



Happyness - Write In (Bar None)













Se il precedente album, l'apprezzato Weird Little Birthday (Moshi Moshi, 2015), rappresentava l'esordio discografico per un trio di stampo post-grunge, con una buona tendenza alla scrittura di melodie di impatto ma anche una passione per nulla nascosta per le chitarre distorte, questo secondo sforzo in studio vede la band londinese inoltrarsi attraverso territori più ariosi, rendendo il proprio suono etereo ed essenziale, in direzione di un dream-pop raffinato nel quale a sprazzi si inseriscono sonorità più spinte che riportano vagamente agli esordi. Write In è un album nel quale la potenza è mitigata dai suoni, con le chitarre pulite e la voce di Jon EE Allan, estremamente carica di effetti, a dominare la scena. Il disco allinea dunque brani di stampo new-wave come Falling down, piccole gemme pop come The C is A B A G e Victor Lazzaro's heart, ma anche tirate rock più distorte (Anytime e Bigger glass less full). Un buon disco, nel quale però manca quel guizzo vincente che potrebbe far fare il salto di qualità alla band. (6,5/10)