Alfieri di una cultura psichedelica strettamente legata agli anni '60, in grado di attualizzare un ambito musicale i cui sentori a fasi alterne si fanno più intensi nel calderone del rock statunitense, i texani Black Angels rappresentano una delle realtà più credibili e interessanti del genere. Con una manciata di buoni album all'attivo, titolari del Levitation Festival di Austin e stretti collaboratori di Roky Erickson, una delle leggende viventi del rock psichedelico, arrivano al quinto lavoro in studio, coadiuvati dall'esperto produttore Phil Ek (Fleet Foxes, Band of Horses).
Un album nel quale gli stilemi del genere sono presenti in abbondanza, sebbene affrontati con un'attitudine, rispetto al passato, più vicina alla wave moderna e a certe durezze stoner; largo dunque a massicce stratificazioni chitarristiche, ritmiche ossessive, echi e riverberi in abbondanza. Il titolo (e la copertina ne è testimone) chiude in qualche modo un cerchio, la band infatti mutuò la propria denominazione dal brano dei Velvet Underground Black angel's death song (The Velvet Underground And Nico, 1967).
L'iniziale Currency, mantra d'impatto devastante, mette subito a fuoco le intenzioni della band: batteria incalzante, chitarre nervose, voci immerse in un tripudio di effetti, intermezzo sixties-style con un ficcante organo, il brano cresce ad ogni ascolto, non poteva esserci inizio migliore. I toni rimangono spinti anche con la seguente I'd kill for her, composizione che strizza l'occhio a certa indie-wave con la band di John Cale e Lou Reed nel cuore. Half believing rallenta un poco la corsa, è un brano epico, con strofa cinematografica e ritornello anthemico che porta alla mente i migliori Sixteen Horsepower.
Comanche moon è una ballad cadenzata con un testo molto forte, nella quale suoni ed effetti si mischiano creando l'ennesimo mantra, con cambi di ritmo e di dinamiche, voci eteree e chitarre trascinanti, uno dei brani migliori del lotto. Hunt me down è invece meno incisiva, più prevedibile nello svolgimento, con stacchi banalotti e una strofa la cui melodia pare scritta senza troppa convinzione. Si salva l'intermezzo straniante ma il pezzo non decolla. Di tenore decisamente differente Grab as much (as you can), ritmata e intrisa di melodie sixties, con un deciso retrogusto di Doors che non guasta.
Estimate è una ballad marziale, con ritmica paranoica, chitarre ripetitive e un'atmosfera da soundtrack morriconiano piuttosto affascinante. Voci particolari si rincorrono in un brano basato in pratica su un solo accordo ripetuto ossessivamente su una base dissonante di tastiere. I dreamt e Medicine spostano ancora l'asticella verso tendenze wave, non centrando a pieno l'obbiettivo, l'una a causa di una certa pesantezza di fondo, l'altra per l'atteggiamento fin troppo ruffiano, è un brano pop mal mascherato, che in alcuni momenti si innalza verso un'aura à-la-Barrett ma finisce per sbandare a causa dell'inciso debole e poco consistente.
Molto meglio Death march, con il basso a guidare le danze, echi a tonnellate sulla voce e feedback a pioggia. In questa e nella successiva Life song, lunga malinconica ballata che chiude l'album in maniera splendida, si scorgono nuances pinkfloydiane molto accentuate. Death Song è in definitiva un lavoro ben concepito per una band che si dimostra ancora una volta coerente nel proporre un genere tanto affascinante quanto alieno alle mode e alle tendenze musicali. (8/10)