martedì 28 marzo 2017

Johnny Flynn - Sillion (Transgressive)


Nei quattro anni che separano questo nuovo lavoro dal precedente 'Country Mile', non si può dire che Johnny Flynn sia stato con le mani in mano. Il trentaquattrenne di origine sudafricana ha infatti lasciato momentaneamente da parte la musica per dedicarsi alla carriera di attore, che da sempre viaggia parallelamente a quella di cantautore, con le medesime soddisfazioni. 

Ha infatti recitato parti da protagonista in un paio di serie televisive (Lovesick, Brotherhood), pellicole cinematografiche (Song One, Sils Maria) e pièce teatrali. Sulla scorta di queste esperienze è nato Sillion, album che ci presenta Flynn come autore ormai maturo, dotato di uno stile coerente e riconoscibile, finalmente fuoriuscito dal calderone del neo-folk britannico nel quale era stato inserito a seguito del successo di gruppi come Mumford & Sons o Noah and the Whale.

Il disco si apre con Raising the dead, brano scelto anche come singolo, nel quale i sapori di certo folk tradizionale, dall'andamento per così dire alcolico, si inseriscono in un contesto di stampo americana, grazie al bell'arrangiamento per voci, archi e chitarre, spesso dissonanti, sorretto da una cadenzata ritmica. Accelera giusto un poco la seguente Wandering aengus, nella quale gli archi si fanno più presenti e Flynn inserisce quello che è un po' il suo marchio di fabbrica, lo stop sul primo battere che conferisce un caratteristico andamento zoppicante al brano.

Heart Sunk Hank nasce da una registrazione effettuata all'interno di una cabina Voice-O-Graph (lo stesso macchinario utilizzato da Neil Young e Jack White per la registrazione di 'A Letter Home'), per poi "ripulirsi" mano a mano che il brano avanza, fino a ritornare gracchiante ed imperfetta; è una sorta di divertissement molto affascinante ma nulla più. Barleycorn, chiaramente ispirata alla tradizione folk, rimette il disco su un binario più movimentato, con un andamento in crescendo nel quale le voci si intrecciano su una strofa  di stampo indie-pop che apre la strada per il ritornello corale. 

The night my piano upped and died è di nuovo ritmata e corale, con una marimba a colorare una composizione che unisce sentori irish con il sapore nordafricano di darbouka e tamburi. In the deepest torna su territori più usuali al nostro, con crescendo e rincorse strumentali tra archi e fiati ed un Hammond a far bordone, per un arrangiamento ricco e variegato, con un finale molto potente. In your pockets è un brano onesto ma poco graffiante, sebbene la parte centrale costruita sugli archi sia molto particolare; a livello compositivo ricorda le atmosfere dell'esordio 'A Larum' (2008).

Meglio la seguente Jefferson's torch, la quale apre come sghemba pub-song per trasformarsi in una malinconica ballata corale con stacchi, arpeggi e belle voci femminili. Anche in questo caso l'arma del crescendo fa la differenza e il brano si apre su un solo di chitarra semplice ma evocativo che riporta all'inciso. Tarp in the prop gioca su colori particolari di organo, sorretti da una base percussiva minimale, con in primo piano la voce teatrale di Flynn a declamare, seguita nel ritornello da controcanti femminili. Un brano dal gusto molto vintage che cresce ascolto dopo ascolto.

Il disco si chiude con gli oltre sei minuti di Landlord, pezzo che attacca come una sorta di gospel-folk con le voci a gestire pressoché l'intero arrangiamento, fino all'entrata dei fiati, i quali, di stacco in stacco, conferiscono struttura a un brano che, come nel caso del precedente, necessita di più di un ascolto. Johnny Flynn pare ancora in bilico tra velleità attoriali e musicali ma questo disco lo conferma come artista dotato di grande personalità e indiscutibile abilità compositiva. (8/10)