giovedì 23 febbraio 2017

Tinariwen - Elwan (Anti-)


Possiamo fare mille considerazioni circa l'ineluttabilità delle contaminazioni, interrogarci su quale sia il luogo primigenio del tribalismo che ha portato alla nascita del blues, oppure fare attenzione a quanta Africa ci sia ancora in tutta la musica che ogni giorno sfiora il nostro udito; nulla potrà chiarirci le idee quanto la musica incisa su dischi come quello che abbiamo tra le mani. 

C'é un respiro antico che viene dalla terra, arso dal sole e speziato nel sapore, qualcosa di ancestrale che unisce la semplicità delle polverose strade del Mali alla modernità di uno studio digitale degli Stati Uniti, in un progetto che va al di là della world music, del rock o del blues. Una storia che parla di esilio e radici, con una colonna sonora fatta di circle-songs ipnotiche, dai ritmi sinuosi, apparentemente statiche ma in realtà tumultuosamente brulicanti. 

Registrato dalla longeva band maliana in forzato esilio, tra il deserto californiano di Joshua Tree (Racho de la Luna) e quello marocchino di M'Hamid El Ghizlane, in compagnia di musicisti il cui pane quotidiano è la sperimentazione, nomi del calibro di Kurt Vile, Mark Lanegan, Matt Sweeney e Alan Johannes, Elwan (Elefanti) ci presenta i Tinariwen in grande spolvero. Il disco è molto diretto, approcciabile anche da chi non è avvezzo alle sonorità della band Tuareg, e gli ospiti rendono il lavoro ancora più potabile, senza comunque snaturarne le radici e lo spirito.

Dal groove irresistibile di Tiwàyyen al beat ostinato di Sastanàqqàm, passando per il folk imbastardito di Nizzagh Ljbal e Talyat, con le influenze nordafricane a fare capolino nella ritmica e nelle voci, l'album viaggia spedito mescolando una grande varietà di suoni e colori senza soluzioni di continuità, fino alla conclusiva, splendida, Fog Edaghàn, la cui introduzione di flauto ci trasporta in un'atmosfera notturna desertica che si trasforma, battuta dopo battuta, in un ossessivo e rovente mantra.

I punti più alti del lavoro sono la cadenzata Nànnuflày, nella quale la voce di Mark Lanegan si inserisce come una lama rovente in un tessuto blues ordito da chitarre scabre e lancinanti, e Assàwt, con le acustiche flamenco a danzare su poliritmi irresistibili.
Un album immediato e sincero che senza ombra di dubbio darà modo alla band di ampliare considerevolmente il proprio pubblico e sarà annoverato tra le eccellenze discografiche di questo finora lusinghiero 2017. (7,5/10)