Possiamo
fare mille considerazioni circa l'ineluttabilità delle
contaminazioni, interrogarci su quale sia il luogo primigenio del
tribalismo che ha portato alla nascita del blues, oppure fare
attenzione a quanta Africa ci sia ancora in tutta la musica che ogni
giorno sfiora il nostro udito; nulla potrà chiarirci le idee quanto
la musica incisa su dischi come quello che abbiamo tra le mani.
C'é
un respiro antico che viene dalla terra, arso dal sole e speziato nel
sapore, qualcosa di ancestrale che unisce la semplicità delle
polverose strade del Mali alla modernità di uno studio digitale degli Stati Uniti, in un progetto che va al di là della world music,
del rock o del blues. Una storia che parla di esilio e radici, con
una colonna sonora fatta di circle-songs ipnotiche, dai ritmi
sinuosi, apparentemente statiche ma in realtà tumultuosamente
brulicanti.
Registrato
dalla longeva band maliana in forzato esilio, tra il deserto
californiano di Joshua Tree (Racho de la Luna) e quello marocchino di
M'Hamid El Ghizlane, in compagnia di musicisti il cui pane quotidiano
è la sperimentazione, nomi del calibro di Kurt Vile, Mark Lanegan,
Matt Sweeney e Alan Johannes, Elwan (Elefanti) ci presenta i
Tinariwen in grande spolvero. Il disco è molto diretto,
approcciabile anche da chi non è avvezzo alle sonorità della band
Tuareg, e gli ospiti rendono il lavoro ancora più potabile, senza
comunque snaturarne le radici e lo spirito.
Dal
groove irresistibile di Tiwàyyen
al beat ostinato di Sastanàqqàm,
passando per il folk imbastardito di Nizzagh
Ljbal
e Talyat,
con le influenze nordafricane a fare capolino nella ritmica e nelle
voci, l'album viaggia spedito mescolando una grande varietà di suoni
e colori senza soluzioni di continuità, fino alla conclusiva,
splendida, Fog
Edaghàn,
la cui introduzione di flauto ci trasporta in un'atmosfera notturna
desertica che si trasforma, battuta dopo battuta, in un ossessivo e rovente mantra.
I punti
più alti del lavoro sono la cadenzata Nànnuflày,
nella quale la voce di Mark Lanegan si inserisce come una lama
rovente in un tessuto blues ordito da chitarre scabre e lancinanti, e
Assàwt,
con le acustiche flamenco a danzare su poliritmi irresistibili.
Un
album immediato e sincero che senza ombra di dubbio darà modo alla band di ampliare
considerevolmente il proprio pubblico e sarà annoverato tra le eccellenze discografiche di questo finora
lusinghiero 2017. (7,5/10)