mercoledì 8 febbraio 2017

Ryan Adams - Prisoner (Pax Am)


Scorrendo i brani sulla copertina di questa nuova fatica del cantautore di Jacksonville, si percepisce immediatamente sotto quali auspici sia nato l'album; superata la soglia dei 40 anni, Adams si è ritrovato suo malgrado a fare i conti con un divorzio consumato alla luce dei riflettori del gossip. I titoli di questa raccolta fotografano dunque i momenti, in bilico tra smarrimento e alienazione, che seguono la fine di una storia d'amore sfortunata. Nonostante queste premesse, non ci troviamo di fronte ad un autore in preda a cupe riflessioni o in vena di sfogare pesanti frustrazioni, bensì al Ryan Adams dal songwriting ispirato e solido che in passato ci ha regalato gemme del calibro di Heartbreaker, Gold ed Ashes & Fire. 

Questo disco segue il poco fortunato album omonimo del 2014 (tralasciando il cover-album 1989, del 2015), nel quale Adams aveva in qualche modo irrobustito il proprio suono, senza però riuscire a caratterizzare i brani in maniera convincente. Da sempre i detrattori del nostro lo accusano di essere troppo prolifico e non possiamo dare loro torto, visto che quello che abbiamo di fronte è il sedicesimo album pubblicato da Adams in diciassette anni. Prisoner parte subito forte, con l'organo liquido di Do you still love me a creare un'atmosfera decisamente carica, subito spezzata da ficcanti stacchi di chitarre distorte. I suoni molto compressi riportano al mood anni '80 della miglior new wave statunitense e Adams piazza il consueto ritornello vincente, portando a compimento un'apertura di lavoro più che promettente.

Segue la title-track, con una introduzione costruita su una batteria ossessiva; chitarre in bella evidenza, con una acustica a reggere la ritmica e l'elettrica ad arpeggiare. La parte vocale, forse un poco ripetitiva nella strofa, ha un che di Springsteeniano e il solo di armonica contornato da effetti vocali evoca il Boss in maniera molto naturale. E' così anche per la successiva Doomsday, rock ballad potente con una ritmica semplice eseguita in stile drum machine, accenti decisi e una melodia del ritornello che pare nata sulle strade del New Jersey. 

Haunted house veicola una profonda malinconia, nel testo come nella musica e, nonostante viaggi su ritmiche movimentate, esprime tra le righe un respiro amaro e desolante, frutto di una solitudine mal digerita. La seguente Shiver and shake si regge su una chitarra appena sporcata, semplice e diretta, con un minimale tappeto di tastiere e la voce cantilenante dalla timbrica molto personale di Adams ad allontanare in qualche modo il sapore di Springsteen che anche in questo caso fa capolino. Con To be without you ritroviamo il Ryan Adams più roots-oriented: chitarre acustiche a dettare la linea, organo e percussioni a costruire un brano up-tempo molto riuscito, con una strofa evocativa ed un ritornello semplice ma di sicuro impatto, con profumi anni '70 e grande ispirazione, uno dei pezzi migliori della raccolta. 

Una chitarra carica di effetti apre la successiva Anything I say to you now, in cui tornano le atmosfere new wave; ben cantata, ha nel ritornello il suo punto di forza. Forse la scelta dei suoni rende il tutto un po' scontato, un approccio ritmico più strutturato avrebbe fatto la differenza. Molto bella la coda strumentale, con le chitarre ad intrecciarsi in melodie ed accenti. Con Breakdown Adams rispolvera la chitarra dodici corde e ci regala un altro brano molto riuscito; l'intro è di impatto, il lavoro del basso fondamentale per lo sviluppo di un mood solido e nervoso e quando entrano batteria e chitarre elettriche il brano decolla. Nel bridge spunta anche un flanger piuttosto spinto e le voci conferiscono una spruzzata di psichedelia al tutto. Gran brano che pensiamo possa dare ancora di più in dimensione live.

Il titolo della seguente Outbound train ancora una volta richiama alla mente il Boss ed il pezzo pare non voler negare nessun tipo di evidenza, a parere di chi scrive è il meno ispirato del lotto. Molto meglio la successiva Broken anyway, con buone melodie vocali, bei suoni ed un arrangiamento misurato, in un ricco mix di acustico ed elettrico. Due-accordi-due ma non serve altro. Tightrope vede ancora l'acustica sugli scudi; la voce entra carica di ambiente, quasi in secondo piano, a snocciolare un testo elaborato che introduce un ritornello cadenzato molto interessante e quando meno te lo aspetti parte uno schiocco di dita e, su un tappeto di pianoforte e timpani, spunta un languido sassofono. Una ballata minimale, inedita per il nostro, intensa e di grande impatto emotivo.

Chiude il lotto la sincopata We Disappear, con una chitarra carica di chorus e la voce un po' stridula di Adams a saltellare su una ritmica spedita, retta da chitarre jingle jangle, basso pulsante in un'atmosfera FM un po' vintage che porta al termine l'album in maniera convincente. Un disco che è il risultato delle vicissitudini vissute nell'ultimo periodo da Ryan Adams e che ce lo presenta ancora una volta in bilico tra la fragile inquietudine del proprio songwriting e la forza di impatto del suono rock di stampo chitarristico, cifra stilistica di questi tempi sempre più rara. Adams è un ottimo autore di canzoni; forse l'urgenza creativa a volte lo porta a fare il passo più lungo della gamba, tralasciando la cura per certi dettagli ma riuscendo comunque a mantenere gli standard delle produzioni sempre piuttosto alti.