giovedì 16 febbraio 2017

Duke Garwood - Garden Of Ashes (Heavenly)


Spesso sbrigativamente etichettato come una sorta di Mark Lanegan britannico, per via della voce sulfurea e delle scabre sonorità desertiche, il londinese Duke Garwood incide la sesta tacca sul manico della fidata Gibson, pubblicando questo atteso nuovo lavoro a ventiquattro mesi esatti dal precedente Heavy Love (Heavenly), disco che, trainato dalla fortunata collaborazione con l'ex-Screaming Trees (Black Pudding, Heavenly 2013), ebbe riscontri molto positivi, riscuotendo ottime recensioni e buoni risultati in termini di vendite.

Questa nuova fatica non fa nulla per discostarsi dalla precedente: Garwood prosegue nel proprio percorso fatto di oscuri paesaggi interiori, squarciati da sporche distorsioni di chitarra, con arrangiamenti scarni ed essenziali ed un umore greve sul quale plasma la propria vocalità inquieta e profonda. Un moderno blues, obliquo ed ipnotico, che brano dopo brano ci trasporta in una dimensione acida e rarefatta dalla quale usciamo come da un salvifico rito mistico.

Dall'iniziale, splendida, Coldblooded, nella quale Garwood focalizza quello che sarà il mood dell'album, con il groove solido ed avvolgente della batteria, le chitarre sature separate nel mix stereo, un supporto corale evocativo e il mantra sussurrato dalla splendida voce. Sulla stessa linea la seguente Sonny Boogie, sebbene meno incisiva, in quanto caratterizzata da una sensazione di incompiutezza, affascinante ma in qualche modo manchevole; per chi scrive è il pezzo meno riuscito dell'album.

Più interessante la successiva Blue, con le chitarre a creare contorsioni lisergiche e un bel lavoro di voci a salmodiare una sorta di tetro gospel, oscuro e perverso. L'andamento è ossessivo e cupo ed il brano cresce, insinuandosi nell'ascoltatore, risultando certamente uno degli highlights del lavoro.
Days gone old e Sing to the sky rappresentano un po' le facce opposte della stessa medaglia; due ballate tese e scarne, prive di percussioni, la prima con una atmosfera fosca e tesa, la seconda più aperta e lieve. Torna la batteria con lo shuffle lento della title-track, nella quale il lavoro di arrangiamento si fa più ricco, inserendo arpeggi ficcanti di chitarre resofoniche e distorsioni sospese, altro brano di altissimo livello.

Heat us down è la più "Lanegan-iana" del lotto, c'é qualcosa nell'ambiente della voce e nei suoni delle chitarre che la rende poco originale. Molto meglio Hard dreams, fumoso e lentissimo blues con il groove ridotto ai minimi termini e la voce, pesantemente riverberata, abbandonata in ampi spazi polverosi; riporta la tensione a livelli altissimi, costituendo il perfetto preludio alla seguente Move on softly, altra vetta del lavoro, nella quale i pochi tasselli sembrano assemblati alla perfezione, dalla ritmica martellante al sussurro sommesso e tormentato di Garwood, con il resto degli strumenti a creare contrappunti e colori contorti.

Sleep è una ninna-nanna inquieta e dissonante, non propriamente adatta al sonno dei bambini, che precede la ripresa dell'iniziale Coldblooded (the return), a concludere il disco così com'era iniziato; altri sei minuti abbondanti in cui le voci si fanno via via più presenti ed eteree in un mantra elegiaco che chiude perfettamente il cerchio. Garwood ha un percorso artistico ormai definito, la sua è una proposta lontana dall'immediatezza del rock o della musica di intrattenimento ma esplora territori oscuri nei quali tutti prima o poi finiamo per addentrarci. Da ascoltare.