Spesso sbrigativamente etichettato come
una sorta di Mark Lanegan britannico, per via della voce sulfurea e
delle scabre sonorità desertiche, il londinese Duke Garwood incide
la sesta tacca sul manico della fidata Gibson, pubblicando questo atteso
nuovo lavoro a ventiquattro mesi esatti dal precedente Heavy Love
(Heavenly), disco che, trainato dalla fortunata collaborazione con
l'ex-Screaming Trees (Black Pudding, Heavenly 2013), ebbe riscontri molto positivi, riscuotendo ottime recensioni e buoni risultati in termini di vendite.
Questa nuova fatica non fa nulla per
discostarsi dalla precedente: Garwood prosegue nel proprio percorso
fatto di oscuri paesaggi interiori, squarciati da sporche distorsioni
di chitarra, con arrangiamenti scarni ed essenziali ed un umore greve
sul quale plasma la propria vocalità inquieta e profonda. Un moderno
blues, obliquo ed ipnotico, che brano dopo brano ci trasporta in una
dimensione acida e rarefatta dalla quale usciamo come da un salvifico rito mistico.
Dall'iniziale, splendida, Coldblooded,
nella quale Garwood focalizza quello che sarà il mood dell'album,
con il groove solido ed avvolgente della batteria, le chitarre sature
separate nel mix stereo, un supporto corale evocativo e il mantra
sussurrato dalla splendida voce. Sulla stessa linea la
seguente Sonny Boogie, sebbene meno incisiva, in
quanto caratterizzata da una sensazione di incompiutezza,
affascinante ma in qualche modo manchevole; per chi scrive è il
pezzo meno riuscito dell'album.
Più interessante la successiva Blue,
con le chitarre a creare contorsioni lisergiche e un bel lavoro di
voci a salmodiare una sorta di tetro gospel, oscuro e perverso.
L'andamento è ossessivo e cupo ed il brano cresce, insinuandosi
nell'ascoltatore, risultando certamente uno degli highlights
del lavoro.
Days gone old e Sing to the
sky rappresentano un po' le facce opposte della stessa medaglia;
due ballate tese e scarne, prive di percussioni, la prima con una
atmosfera fosca e tesa, la seconda più aperta e lieve. Torna la
batteria con lo shuffle lento della title-track, nella quale il
lavoro di arrangiamento si fa più ricco, inserendo arpeggi ficcanti di chitarre resofoniche e distorsioni sospese, altro brano di
altissimo livello.
Heat us down è
la più "Lanegan-iana"
del lotto, c'é qualcosa nell'ambiente della voce e nei suoni delle
chitarre che la rende poco originale. Molto meglio Hard
dreams, fumoso e lentissimo
blues con il groove ridotto ai minimi termini e la voce, pesantemente
riverberata, abbandonata in ampi spazi polverosi; riporta la tensione
a livelli altissimi, costituendo il perfetto preludio alla seguente
Move on softly, altra
vetta del lavoro, nella quale i pochi tasselli sembrano assemblati
alla perfezione, dalla ritmica martellante al sussurro sommesso e
tormentato di Garwood, con il resto degli strumenti a creare
contrappunti e colori contorti.
Sleep
è una ninna-nanna inquieta e dissonante, non propriamente adatta al
sonno dei bambini, che precede la ripresa dell'iniziale Coldblooded
(the return), a concludere il
disco così com'era iniziato; altri sei minuti abbondanti in cui le
voci si fanno via via più presenti ed eteree in un mantra elegiaco
che chiude perfettamente il cerchio. Garwood ha un percorso artistico
ormai definito, la sua è una proposta lontana dall'immediatezza del
rock o della musica di intrattenimento ma esplora territori oscuri
nei quali tutti prima o poi finiamo per addentrarci. Da ascoltare.