sabato 4 febbraio 2017

Chris Thile & Brad Mehldau (Nonesuch)



E' impressionante quanto ancora la musica americana riesca a far conciliare realtà all'apparenza distanti anni luce, creando melting pot dal sapore originale che in qualche modo spostano equilibri e confini musicali verso direzioni inaspettate. E' il caso di questa collaborazione tra uno dei pianisti più influenti nella scena jazz moderna dell'ultimo ventennio e il mandolinista/cantante che più di chiunque altro sta dando nuova linfa alla musica tradizionale statunitense, ibridandola con le espressioni musicali più disparate, portando nel folklore livelli sublimi di virtuosismo e divulgando una cultura musicale che va da Bach al bluegrass, senza perdersi in una sterile ricerca di originalità artefatta. 

Il duo ha esordito sul palco oltre un lustro fa e si è reso protagonista di una fortunata tournée americana nel 2013; all'appello mancava solamente un lavoro discografico che esce ora in forma di doppio LP, nel quale i due si cimentano, faccia a faccia, ognuno con la propria voce e il proprio strumento, nell'interpretazione di cinque brani originali e sette cover. Il risultato è un album decisamente affascinante, con la gusta alchimia tra perizia strumentale e capacità interpretativa. La scelta dei brani rivisitati dal duo non lascia dubbi sulla volontà di spaziare tra i generi; il disco allinea agilmente brani firmati da Joni Mitchell, Bob Dylan, Elliot Smith e Fiona Apple, tanto per fare qualche nome, e i pezzi originali, composti sia in coppia sia singolarmente, non sono da meno. 

L'abilità sullo strumento dei due protagonisti è indiscussa ma il valore aggiunto è la voce di Thile che interpreta con giusto pathos le liriche, mettendo in luce una versatilità che nei progetti precedenti (Punch Brothers, Nickel Creek) non aveva saputo sviluppare appieno. Il disco si apre con una composizione firmata da entrambi, la splendida The old shade tree che dà subito modo a Mehldau di mettere sul piatto un fraseggio variegato, ben sorretto dalla ritmica sincopata del mandolino di Thile che dopo alcune battute suggerisce intrecci sinuosi al pianoforte, fino all'ingresso del cantato, lirico e drammatico. Brano splendido che dimostra di cosa sono capaci i due. Non c'é virtuosismo sterile né voglia di stupire, il pezzo ha una struttura fortemente radicata nella musica tradizionale ma con un gioco di contrappunti e variazioni armoniche che lo arricchiscono di espressività e atmosfera. 

Segue un brano di Mehldau, la svelta Tallahassee junction, nella quale piano e mandolino duettano ora all'unisono, ora inseguendosi in svolazzi ritmico-melodici dalle variopinte tinte bluegrass. Brano dal forte impianto solistico, vede entrambi alle prese con virtuosismi non estremi ma funzionali allo scorrere di un pezzo di lunghezza non indifferente, poco meno di sei minuti. Scarlet town, splendida composizione firmata da David Rawlings e Gillian Welch, chiude la prima facciata. E' un brano che i due hanno sempre proposto durante le loro esibizioni; partenza in sordina, quasi che stiano mettendosi d'accordo sul proseguio dell'esecuzione, poi il tutto si svilluppa in un botta e risposta piano-mandolino che crea il mood giusto sul quale si inseriscono la voce solista di Thile e quella di Mehldau, forse meno caratterizzata ma adeguata al ruolo di controcanto “di sostanza”. Ampio spazio al virtuosismo di entrambi in un'alternanza di parti cantate e assoli strumentali che ci regalano un brano decisamente riuscito, tra i punti più alti del lavoro. 

Non è da meno il seguente I cover the waterfront, brano del 1933 firmato da Johnny Green e Edward Heyman e divenuto popolare soprattutto nell'interpretazione di Billie Holyday. L'inizio è per voce e mandolino, in un crescendo molto emozionante, poi il pianoforte entra di prepotenza e sorregge con grazia la voce di Chris Thile che padroneggia un brano non facile con una interpretazione volutamente esile, evocando in alcuni momenti il fragile vocalismo di Chet Baker. Independence day è un brano del compianto Elliot Smith, tratto dal notevole XO (1998); i due lo affrontano in versione strumentale, mantenendo la ritmica up-tempo originale e alternandosi alla parte solista, con Mehldau in maggiore evidenza. Spiace che abbiano deciso di non cantarlo. Noise machine è un brano di Thile, con un andamento dispari che si regge su un ostinato di plettro, con Mehldau a creare una melodia obliqua sulla quale Chris canta un testo sognante che lascia spazio alle accelerazioni pianistiche e ad un bel solo centrale di mandolino. Brano molto particolare, non facile al primo ascolto. 

Terza facciata con una canzone a testa per i due protagonisti, la strumentale The watcher di Mehldau, ricca di cambi di tempo e variazioni e Daughter of Eve, una sorta di blues sincopato dall'andamento nervoso, con un lavoro di solismi e unisono molto particolari, che si trasforma in ballata malinconica con l'ingresso della voce di Thile. Brano complesso, con una struttura che potremmo definire progressive, quasi nove minuti ad esplorare una moltitudine di forme espressive, il risultato è strepitoso. Fast as you can di Fiona Apple è un'altra interpretazione degna di nota. L'intro è lunga e articolata, con il mandolino che riprende la ritmica schizofrenica dell'originale; l'interpretazione vocale è ovviamente molto diversa da quella della Apple ma Thile porta a casa un buon risultato, la parte centrale soul è davvero notevole, poi partono i soli e si ritorna alla schizofrenìa. 

Gran finale con la quarta facciata, aperta dalla splendida Marcie di Joni Mitchell, ballata delicata con che in questa veste mostra tutta la propria bellezza. Leggermente accelerata rispetto all'originale, si muove sinuosa sulle architetture del piano di Mehldau che portano in alto la voce di Thile per poi planare in meandri più oscuri fatti di contrappunti; per chi scrive la miglior cover del lotto. Reinterpretare Bob Dylan non è facile e i nostri omaggiano il premio Nobel con una versione di Don't think twice, it's all right affrontata con piglio bluegrass e ben cantata da Thile, con la giusta dose di ironia. C'é ampio spazio per l'improvvisazione e i due si danno decisamente da fare; forse del disco è il pezzo meno adatto ad evidenziare le potenzialità dinamiche del duo ma è un piacevole divertissement. La chiusura è affidata a Tabhair dom do lamh, tradizionale irlandese del diciassettesimo secolo, interpretato in passato anche da Chieftains e Planxty, brano folk che i due approcciano con spirito moderno; una buona chiusura per un album che, nonostante la parca strumentazione, riesce ad essere variegato e godibile dalla prima all'ultima nota. Consigliato.