E'
impressionante quanto ancora la musica americana riesca a far
conciliare realtà all'apparenza distanti anni luce, creando melting
pot dal sapore originale che in qualche modo spostano equilibri e
confini musicali verso direzioni inaspettate. E' il caso di questa
collaborazione tra uno dei pianisti più influenti nella scena jazz
moderna dell'ultimo ventennio e il mandolinista/cantante che più di
chiunque altro sta dando nuova linfa alla musica tradizionale
statunitense, ibridandola con le espressioni musicali più disparate,
portando nel folklore livelli sublimi di virtuosismo e divulgando una
cultura musicale che va da Bach al bluegrass, senza perdersi in una
sterile ricerca di originalità artefatta.
Il duo ha esordito sul
palco oltre un lustro fa e si è reso protagonista di una fortunata
tournée americana nel 2013; all'appello mancava solamente un lavoro discografico che esce ora in forma di doppio LP, nel quale i due si cimentano, faccia a faccia, ognuno con
la propria voce e il proprio strumento, nell'interpretazione di
cinque brani originali e sette cover. Il risultato è un album
decisamente affascinante, con la gusta alchimia tra perizia
strumentale e capacità interpretativa. La scelta dei brani
rivisitati dal duo non lascia dubbi sulla volontà di spaziare tra i
generi; il disco allinea agilmente brani firmati da Joni Mitchell,
Bob Dylan, Elliot Smith e Fiona Apple, tanto per fare qualche nome, e
i pezzi originali, composti sia in coppia sia singolarmente, non sono
da meno.
L'abilità sullo strumento dei due
protagonisti è indiscussa ma il valore aggiunto è la voce di Thile
che interpreta con giusto pathos le liriche, mettendo in luce una
versatilità che nei progetti precedenti (Punch Brothers, Nickel
Creek) non aveva saputo sviluppare appieno. Il disco si apre con una
composizione firmata da entrambi, la splendida The old shade tree che
dà subito modo a Mehldau di mettere sul piatto un fraseggio
variegato, ben sorretto dalla ritmica sincopata del mandolino di
Thile che dopo alcune battute suggerisce intrecci sinuosi al
pianoforte, fino all'ingresso del cantato, lirico e drammatico. Brano
splendido che dimostra di cosa sono capaci i due. Non c'é
virtuosismo sterile né voglia di stupire, il pezzo ha una struttura
fortemente radicata nella musica tradizionale ma con un gioco di
contrappunti e variazioni armoniche che lo arricchiscono di
espressività e atmosfera.
Segue un brano di Mehldau, la svelta
Tallahassee junction, nella quale piano e mandolino duettano ora
all'unisono, ora inseguendosi in svolazzi ritmico-melodici dalle
variopinte tinte bluegrass. Brano dal forte impianto solistico, vede
entrambi alle prese con virtuosismi non estremi ma funzionali allo
scorrere di un pezzo di lunghezza non indifferente, poco meno di sei
minuti. Scarlet town, splendida composizione firmata da David
Rawlings e Gillian Welch, chiude la prima facciata. E' un brano che i
due hanno sempre proposto durante le loro esibizioni; partenza in
sordina, quasi che stiano mettendosi d'accordo sul proseguio
dell'esecuzione, poi il tutto si svilluppa in un botta e risposta
piano-mandolino che crea il mood giusto sul quale si inseriscono la
voce solista di Thile e quella di Mehldau, forse meno caratterizzata
ma adeguata al ruolo di controcanto “di sostanza”. Ampio spazio
al virtuosismo di entrambi in un'alternanza di parti cantate e assoli
strumentali che ci regalano un brano decisamente riuscito, tra i
punti più alti del lavoro.
Non è da meno il seguente I cover the
waterfront, brano del 1933 firmato da Johnny Green e Edward Heyman e
divenuto popolare soprattutto nell'interpretazione di Billie Holyday.
L'inizio è per voce e mandolino, in un crescendo molto emozionante,
poi il pianoforte entra di prepotenza e sorregge con grazia la voce
di Chris Thile che padroneggia un brano non facile con una
interpretazione volutamente esile, evocando in alcuni momenti il fragile vocalismo di Chet Baker. Independence day è un brano del
compianto Elliot Smith, tratto dal notevole XO (1998); i due lo affrontano in versione strumentale, mantenendo la ritmica up-tempo
originale e alternandosi alla parte solista, con Mehldau in maggiore
evidenza. Spiace che abbiano deciso di non cantarlo. Noise machine è
un brano di Thile, con un andamento dispari che si regge su un
ostinato di plettro, con Mehldau a creare una melodia obliqua sulla
quale Chris canta un testo sognante che lascia spazio alle
accelerazioni pianistiche e ad un bel solo centrale di mandolino.
Brano molto particolare, non facile al primo ascolto.
Terza facciata
con una canzone a testa per i due protagonisti, la strumentale The watcher di Mehldau, ricca di cambi di tempo e variazioni e Daughter
of Eve, una sorta di blues sincopato dall'andamento nervoso, con un
lavoro di solismi e unisono molto particolari, che si trasforma in
ballata malinconica con l'ingresso della voce di Thile. Brano
complesso, con una struttura che potremmo definire progressive, quasi
nove minuti ad esplorare una moltitudine di forme espressive, il
risultato è strepitoso. Fast as you can di Fiona Apple è un'altra
interpretazione degna di nota. L'intro è lunga e articolata, con il
mandolino che riprende la ritmica schizofrenica dell'originale;
l'interpretazione vocale è ovviamente molto diversa da quella della
Apple ma Thile porta a casa un buon risultato, la parte centrale soul
è davvero notevole, poi partono i soli e si ritorna alla
schizofrenìa.
Gran finale con la quarta facciata, aperta dalla splendida Marcie
di Joni Mitchell, ballata delicata con che
in questa veste mostra tutta la propria bellezza. Leggermente accelerata
rispetto all'originale, si muove sinuosa sulle architetture del piano
di Mehldau che portano in alto la voce di Thile per poi planare in
meandri più oscuri fatti di contrappunti; per chi scrive la miglior
cover del lotto. Reinterpretare Bob Dylan non è facile e i nostri
omaggiano il premio Nobel con una versione di Don't think twice, it's
all right affrontata con piglio bluegrass e ben cantata da Thile,
con la giusta dose di ironia. C'é ampio spazio per
l'improvvisazione e i due si danno decisamente da fare; forse del
disco è il pezzo meno adatto ad evidenziare le potenzialità
dinamiche del duo ma è un piacevole divertissement. La chiusura è
affidata a Tabhair dom do lamh, tradizionale irlandese del
diciassettesimo secolo, interpretato in passato anche da Chieftains e Planxty, brano folk che i due approcciano con spirito moderno; una buona
chiusura per un album che, nonostante la parca strumentazione, riesce
ad essere variegato e godibile dalla prima all'ultima nota.
Consigliato.