giovedì 27 aprile 2017

Recensioni brevi: Juliana Hatfield, Wilsen

Juliana Hatfield - Pussycat (American Laudromat)













Spesso si usa dire che per alcuni artisti il tempo parrebbe essersi fermato, affermazione che in genere fa riferimento ad una buona tenuta fisico/estetica del personaggio esaminato. La 50enne cantautrice dal Maine è senza ombra di dubbio invecchiata splendidamente, ma è la sua musica che sembra essersi cristallizzata negli anni '90, rimanendo aggrappata a stilemi vicini all'alternative/grunge venato di pop dei Lemonheads, band che vide per un paio di anni la Hatfield nella propria line-up. Questo Pussycat, album scritto come sorta di reazione alle elezioni presidenziali del Novembre 2016, vede l'autrice collocare una serie di bei testi graffianti all'interno di strutture musicali molto semplici, arrangiate per due chitarre, basso e batteria e registrate in poco più di due settimane ai Q Division Studios di Somerville, Massachussetts. Grazie alla buona vena pop dei brani, apprezzabile in particolare nelle piacevoli Impossible song, Short fingered man e Sunny somewhere, l'album regala qualche motivo di interesse ma il tentativo di creare la sensazione di un viaggio sulla macchina del tempo non sempre dà i frutti sperati. (6/10)


Wilsen - I Go Missing In My Sleep (Secret City)













Trio di stanza a Brooklyn, che ruota attorno alla figura della dotata cantante canadese Tamsin Wilson, dopo un paio di lavori più o meno ricchi di motivi d'interesse, sempre orientati verso un indie-folk di maniera, Wilsen arriva al primo full lenght album, registrato tra l'Inghilterra e gli States, e caratterizzato da un cambio di rotta musicale. Le atmosfere sono decisamente più raffinate ed elettriche, in un'ottica compositiva inserita in ambienti indie-wave sofisticati, nei quali i suoni acustici finiscono per essere utilizzati solamente come colore aggiunto negli arrangiamenti. Alcuni episodi risultano dannatamente riusciti, su tutti l'iniziale Centipede, piccolo capolavoro ambient/pop, la ritmata Emperor e la conclusiva Told you, la cui struttura in continua evoluzione convince appieno. Ciò che resta risulta fin troppo in bilico tra fascinazioni eteree pressoché indolori e momenti nei quali la band pare in balìa di una colpevole indecisione musicale. Il sentore è quello di un combo talentuoso e promettente ma ancora non in grado di esprimersi in totale libertà. (6,5/10)