Reduce dall'esaltante esperienza di 'Shine a Light', formidabile opera di recupero di una manciata di composizioni dallo sconfinato songbook folk statunitense, realizzata in compagnia dell'amico Billy Bragg, Joe Henry si è rifugiato per quattro giornate in uno studio di Hollywood, tra Febbraio e Marzo 2017, circondato da una schiera di storici collaboratori: il batterista Jay Bellerose, il bassista David Piltch, il chitarrista John Smith, il pianista Patrick Warren e il figlio, l'ottimo sassofonista Levon. Con il pluripremiato ingegnere del suono Ryan Freeland (Ray LaMontagne, Bonnie Raitt, Allen Toussaint) al mixer, il combo ha messo insieme undici brani notevoli, regalandoci uno degli album migliori prodotti del cantautore da Charlotte.
La forza di 'Thrum' sta proprio nella formula utilizzata: la registrazione in presa diretta ha impresso ai brani un calore palpabile e una forza propulsiva di dinamiche in continuo mutamento, perfetti per le atmosfere sommesse delle composizioni di Henry, la cui voce si erge imperiosa su un tessuto sonoro carico di pathos. Da produttore consumato che può vantare uno dei curriculum più ricchi sulla piazza, Joe Henry ha saputo dosare con precisione suoni e arrangiamenti, completando un lavoro nel quale non c'é una nota fuori posto; tutti i brani, anche quelli meno incisivi, godono di un impasto sonoro spettacolare e di una parte narrativa di altissimo livello, con una semplicità strutturale che permette loro di essere apprezzati già al primo ascolto.
Climb apre il disco terzinata, con Henry a scandire il tempo per la band che, battuta dopo battuta, costruisce attorno al suo caldo ed espressivo cantato una architettura di archi, fiati e piano elettrico dai sapori jazzati, soprattutto per merito di Levon, il quale inserisce nel brano una bella serie di virtuosismi al soprano. Un inizio lento ma esaltante che fa da apripista alle cadenze sempre estremamente originali della batteria di Jay Bellerose, vero artista delle pelli che con i suoi suoni vintage imprime un po' a tutto il disco una profonda impronta. Believer è una ballad ritmata in continuo mutare; viaggia in crescendo dalla prima all'ultima nota e convince senza riserve.
Dark is Light Enough è una composizione ariosa, aperta da momenti vicini al noise, con tutti gli strumenti a creare un climax molto suggestivo. Dopo un minuto di intro tutto pare fermarsi ed ecco la voce di Henry a creare con gli strumenti un intreccio armonico che sa di oriente nella sequenza degli accordi. Il testo ha una poetica malinconica, con i ricordi e le disillusioni ad inseguirsi. Altro ottimo pezzo, nel quale i musicisti paiono completamente liberi di esprimersi, e lo fanno alla grande. Blood of the Forgotten Song è forse un filo risaputa, cantata e suonata benissimo, ma meno incisiva delle precedenti; ha i sapori folk del Greenwich Village, pare un outtake della colonna sonora del bel film dei Coen 'A Proposito di Davis'.
World of This Room si apre con uno strumming di chitarra suggestivo, sul quale si innestano la voce, creando un unisono, e le percussioni suonate in maniera anticonvenzionale dal buon Bellerose. E' uno dei momenti più alti del lavoro. I suoni sono splendidi, ogni colpo di piatto della batteria è liberatorio. All'opposto nelle sonorità ma altrettanto pregna di contenuto, la successiva The Glorious Dead, con l'apertura affidata al piano e i contrappunti ai clarinetti alto e basso. Hungry è la più moderna tra le ballad dell'album, si muove su percorsi in tonalità minore, nei quali Henry si avventura deciso, arrangiando il tutto con grande maestria. Altra vetta del lavoro.
Ennesima lunga intro per Quicksilver, ballad con un picking originale, dal piglio western, forse meno risoluta delle altre ma certamente sopra la media. Per River Floor si ritorna a sperimentare sui suoni, con batteria e fiati ancora una volta sugli scudi. Il tempo è dispari, va un poco assimilato, ma una volta compreso l'andazzo il pezzo arriva, denso e articolato. Now and Never ha un testo splendido, in tutto l'album c'é un gusto per la narrazione di altissimo livello; è una ballata semplice per chitarra, voce e fiati effettati, con giusto qualche contrappunto di marimba, una piccola gemma.
Chiude Keep Us in Song, la più lineare delle ballad contenute nel disco, dylaniana nelle liriche e pastorale nell'arrangiamento degli archi, un finale perfetto per un ottimo lavoro. La fama come produttore ha spesso fatto trascurare le doti di autore ed interprete del 57enne artista dal North Carolina, ma questo 'Thrum' rimette le cose a posto; lo vedremo apparire spesso nelle classifiche di fine anno. (9/10)